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venerdì 27 dicembre 2013

il quadro più scandaloso


                                                         

                                                         

                                                       IL QUADRO PIU' SCANDALOSO

                          Gustave Coubert, L'Origine del mondo, 1866, Musée d'Orsay, Paris

                                                                   olio su tela, cm 45x65

" L'erotismo può essere oggetto d'indagine solo a patto che, indagando su di esso, si indaghi sull'uomo" Georges Bataille, L'erotismo.




L'origine du monde
Gustave Courbert, L'origine del mondo, 1866, Musée d'Orsay, Paris


                             
         Il crudo realismo di Gustave Courbert, in quest'opera dipinta nel 1866 non lascia spazio all'immaginazione: mostra ciò che è. E trascina lo sguardo ( l'emozione dello sguardo ) dove l'artista vuole che si concentri. Il sesso di donna adulta qui mostrato è probabilmente il sesso più vero e più scandaloso dell'intera storia dell'arte. Nessun artista come Couebert ha osato tanto. Nella casa del primo collezionista, il turco Khalil Bey, che possedeva una collezione interamente dedicata al corpo femminile, il dipinto era coperto da una tenda verde che veniva tirata per mostrarlo alla stupefatta ammirazione dei suoi visitatori intimi. Nella bottega antiquaria parigina dove fu trovato fortunosamente dallo scrittore Edmonde de Gouncourt era coperto da una tavola con un falso dipinto che mostrava un castello e la fama di immagine scandalosa e addirittura pornografica restò persino fino ai tempi nostri quando in Portogallo, nel 2009, la polizia sequestrò tutte le copertine di una rivista che portava l'immagine del quadro.
             
                 La storia dell'Origine  è piuttosto avventurosa, il dipinto fu prima a Parigi nella collezione di Khalil Bey che aveva quadri erotici di Ingres, Manet, Coubert, quando l'eccentrico ottomano si rovinò per debiti di gioco, il dipinto venne prima acquistato da Edmonde Gouncourt, poi dal collezionista ungherese Hatvany che lo portò a Budapest e lo riportò a Parigi dopo la Seconda Guerra Mondiale. Nel 1955 fu acquistato all'asta per 1.5 milioni di franchi dallo psicanalista Lacan che lo portò nella sua casa di campagna che divideva con Sylvia Bataille e per il quale fece realizzare una cornice apposita che serviva a concentrare lo sguardo dello spettatore su ( per usare un famoso titolo di Bunuel ) "quell'oscuro oggetto del desiderio". Morto Lacan lo Stato Francese accettò il quadro come conguaglio per la cospicua tassa di successione che il grande psicanalista avrebbe dovuto versare e venne portato al Museo d'Orsay nel 1995 dove si trova tuttora in una collocazione in verità infelice che non si sa se per senso del pudore o per imperizia del curatore mortifica alquanto la potenza seduttiva del dipinto. Da quello che si sa, ma non vi sono certezze assolute, la modella del dipinto fu Yohanna Huffernen, amante irlandese del pittore americano James Whistler ammiratore di Courbert e forse amante dello stesso pittore che la ritrasse almeno 4 volte, certamente nel famoso Il Sonno o meglio Pigrizia e Lussuria  che è dello stesso 1866 ( probabilmente è la donna con la gamba sollevata che impersona una lussuria lesbica, sdraiata con il braccio abbandonato, il cui nudo è prorompente e di immediato impatto rispetto a quello più incerto e quasi angelico della Pigrizia ).



















          La raffigurazione del corpo nell' Origine è selezionata; il pittore riproduce proprio ciò che vuole comunicare di più: l'organo sessuale e quindi solo le gambe al centro e il ventre sino ai seni ( se ne vede uno, l'altro è coperto dal lenzuolo ). Non hanno importanza altre parti del corpo, men che mai la testa sia pure con bellissimi capelli rosso irlandese e il volto molto bello e sensuale di Yoanna: è un particolare superfluo, estraneo alla sensualità, tutta concentrata sull'organo sessuale che qui non ha nulla di materno o riproduttivo, come vorrebbe alludere il titolo che è di certo ironico e quanto meno straniante. Qui si mostra un organo pronto per un accoppiamento come si evidenzia dalla pelle tirata verso il pube che caratterizza la tensione erotica dell'attesa della penetrazione. La pelle della donna ha qui una colorazione rosea tenue, di tipo veneziano ( più Tiziano che Veronese, ma anche Giorgione e Correggio ) ed un ombelico centrale che rimanda ancora allo studio anatomico del nudo dei grandi veneti e si rimanda alla notissima Venere di Urbino di Tiziano.

Venere dormiente
Giorgione di Castelfranco, con Tiziano,  Venere dormiente,  1507-1510 ,Gemaldegalerie Alte Meister, Dresda 


Venere di Urbino
Tiziano Vecellio, Venere di Urbino, 1538, Firenze,  Galleria degli Uffizi
                                                                                           

          La grande sconvolgente novità di Courbert non è nella rappresentazione pubica che è generalmente vista ad una altezza superiore dello sguardo e di regola o dall'alto o di taglio o frontalmente con il nudo in piedi: un triangolo in genere anche geometricamente perfetto come appunto nella Venere poc'anzi detta; il colore in genere è rosato quasi privo di peluria ( un fatto, peraltro, abbastanza comune, per ragioni igieniche, operato dalle prostitute ), in certi casi quasi indistinto e confuso con l'incarnato. Ancora Ingres, che pure è spesso attratto dall'universo femminile, realizza nudi indistinti senza un particolare realismo genitale, visti attraverso un tondo, una specie di spioncino che spinge lo sguardo, il voyerismo del pittore ( ma anche indirettamente dello spettatore del dipinto ) dentro un bagno turco che è solo un ammasso di corpi nudi femminili.

Auguste Domenique Ingres, Il bagno Turco,  1862, Paris, Musée du Louvre

                               
              Nell' Origine, non c'è un voyerismo, l'inquadratura è bassa, il pittore scende sotto il pube a rappresentare la vulva, ad indicare attraverso la feritoia angolare schiacciata in basso dalla pressione delle natiche sul lenzuolo,  il centro del piacere sessuale: altro che luogo della riproduzione ( al quale allude solo secondariamente il titolo ) e appunto altro che origine genitale dell'umanità! A voler sottolineare, senza alcuna pruderie, in alto la feritoia si apre mostrando una piccolissima parte dell'interiorità genitale, indicando una pratica  consumata del sesso da parte di una donna se non di vita almeno di mondo. Non vi è dunque qui un sesso raccontato sub specie mitologica come in Giulio Romano o in Agostino Carracci, dove al più si evidenziano posizioni complesse e spesso ardue o addirittura acrobatiche usate proprio con l'intenzione di confondere, nascondere, velare, moralizzare, proiettando la realtà dell'accoppiamento nel passato mitico del paganesimo, quindi lontano dalla vigente età cristiana, ma un sesso nella sua cruda realtà pre-operativa e per di più ( usando un linguaggio cinematografico ) in Primissimo Piano. Certo c' è anche una visione più esplicita e realistica dell'erotismo e dei sessi maschili e femminili, apertamente pornografica anche nel passato, come nei Modi di Giulio Romano incisi da Marcantonio Raimondi nel 1524 e successivamente nel'27 , e descritti dopo la prima edizione, nei Sonetti lussuriosi di Pietro Aretino che accompagnavano l'edizione successiva e che portarono l'incisore in prigione.

File:I modi raimondi.JPG
Marcantonio Raimondi, I modi, 1524c, British Museum, London
O ancora come nelle incisioni degli Amori degli dei di Agostino Carracci, in cui la figurazione è esplicitamente pornografica.


File:Carracci Jupiter et Junon.jpg
Forse Agostino Carracci, incisione de Gli Amori degli dei, inizio sec.XVII 


Ma qui il sesso pur se così esplicito è ancora esagerato ed acrobatico, in una parola lontano dalla realtà e i sessi sono visti in un modo non propriamente aderente alla natura, ma appunto idealizzati e proiettati nella figurazione mitologica.
                   Nella figurazione mitologica rinascimentale aveva più spazio la rappresentazione anche erotica del sesso maschile ( era più tollerata ). C'è un affresco di Giulio Romano nella Sala di Psiche di Palazzo Te a Mantova, nella partitura superiore della parete lunga in cui Federico II nudo in veste di Giove, esibisce un fallum in erezione con un considerevole realismo figurativo, sia pure attraverso il mascheramento mitologico.


Giulio Romano, Federico II Gonzaga in veste di Giove,  Mantova, Sala di Psiche


Ma il sesso femminile no; non ha la stessa attenzione e non l'ha neanche nei dipinti libertini del Settecento ( ovviamente lasciamo fuori le incisioni erotiche che non avevano carattere pubblico, ma solo strettamente privato ) e nelle figurazioni realistiche dell'Ottocento. Un carattere esotico dove la carnalità è un po'incasellata o incorniciata nel drappo bleu, ma che comunque domina attraverso la posa erotica è nell'Odalisque, 1749 di François Boucher, in cui non si mostra l'organo genitale, ma il suo esatto opposto che è evidenziato in una posa molto erotica in maliziosa offerta all'osservatore. Questo dipinto che certamente può comunque rientrare in un'ideale Galerie di quadri a soggetto erotico, ha una carica sensuale non molto diversa. Ma ancora non è il particolare sessuale ( il posteriore e le carnose natiche ) a colpire lo sguardo, ma è la posa dell'Odalisca. Solo nell'Origine invece, abbiamo un particolare che è tutto il centro dell'attenzione dello sguardo.    


François Boucher, L'Odalisca, 1749, Musée di Louvre, Paris 
                                                                                   
                Lo stesso Boucher , con Ercole ed Onfale  , del 1753, aveva, sia pure dietro il travestimento mitologico,  tentato di dare corpo all'immaginario proibito del libertinismo settecentesco con una figurazione che fece scandalo fra i ben pensanti del tempo : Onfale nuda sul letto ha una posa sfrontata con la gamba sulle gambe del nudo Ercole, con il braccio che si insinua in quello dell'eroe e con un bacio appassionato e profondo ( alla francese ) goduto appieno da entrambi ad occhi chiusi. Anche qui, però i sessi di entrambi sono coperti dal drappo bianco.

François Boucher, Ercole ed Onfale, Mosca, Museo Puskin
Intorno al 1840, il pittore Peter Johann Nepomunk, aveva realizzato una serie di acquerelli erotici molto espliciti ed osceni, ma avevano un carattere privato e una circolazione limitata. Specialisti del nudo, ma puramente accademico, erano stati i pompiers parigini, come Delaroche e Cabanel, che avevano sviluppato immagini idealizzate e sempre nel solco dell'immaginario mitologico, con inquadrature distanti, dove il sesso femminile si perde in una stucchevole raffinatezza.



                                                                                          Alexander Cabanel, La nascita di Venere, 1863

 
Un definitivo scollamento dall'immagine mitologica per la rappresentazione dell'eros, che avrà influenza su Courbert, lo abbiamo nell' Olympia, del 1863; Manet aveva dipinto una donna certamente molto sensuale, non un'immagine mitologica , bensì un'immagine diciamo così nascosta, vista nell'intimità di una camera da letto di un bordello, con una cortigiana nuda ( che lo sia basta soprattutto il nastrino al collo che era tipico delle prostitute parigine ) che certo copre pudicamente il pube ( quasi come la Venere di Urbino di Tiziano alla quale si ispira ) , ma che ha una posa sfrontata, audace, offerta allo sguardo di un fruitore borghese e magari frequentatore di case chiuse, che ne viene emotivamente coinvolto.
Olympia
Eduart Manet,  Olympia, 1863, Musée d'Orsay, Paris

         Courbert aveva ben appreso la novità di Manet ed era andato oltre nel realismo erotico, esasperandolo al suo massimo grado e giungendo ad osare molto oltre ciò che sino ad allora si era osato ( ancora oggi la pittura figurativa erotica che non sia quella privata delle litografie, ha in questa immagine uno straordinario unicum di   perfezione formale e di carica erotica allo stesso tempo) . Egli sviluppa un dettaglio molto curato che è evidenziato da due colori ( il nero pubico sul Monte di Venere e il rosa della vulva che scivola in basso dalla  piega ondulare ). Si è detto a voler dare un valore semantico al titolo ( ma lo ritengo personalmente ironico e non un indice antropologico ) che l'assenza del volto serve a rendere anonimo il corpo, che non è il corpo di una donna, ma della donna e dunque il suo sesso sarebbe il sesso, l' organo riproduttivo da cui è nata l'umanità. E' una possibilità; tuttavia sono di altro avviso, come ho detto prima il volto non c'entra, perché qui si vuole rappresentare solo il sesso femminile nella sua cruda ed unica realtà oggettuale e nelle sua grande funzionalità erotica.  Georges Bataille ( curiosamente il primo marito di Sylvia Bataille, moglie di Lacan che possedeva l'Origine ) afferma che l'erotismo "si definisce attraverso l'indipendenza della riproduzione" e del " godimento come fine , cioè il godimento" da mezzo diventa fine " ( 1951,14 ).

            A mio avviso proprio ciò che, forse, al di là dell'apparenza e del fuorviante titolo, il pittore voleva mostrare ( e da qui, chissà, anche il fatto di nasconderla, di velarla, di vederla solo in privato, in quanto tutto faceva venire alla mente degli spettatori, tranne la riproduzione! ). Naturalmente non si nega che si tratta di una interpretazione discutibile, però Courbert già aveva distinto ai suoi tempi la moralità  dall' estetica, nel senso che può certo esistere un'estetica autonoma e immorale o scandalosa e che soprattutto non sia necessario intervenire sulla realtà per moralizzarla, ma che la realtà ( come molti realisti avevano già mostrato e come lo stesso Courbert farà in altri ambiti realistici, si pensi allo Spaccapietre del 1849 già a Dresda, distrutto nel corso della Seconda Guerra Mondiale ) andava mostrata così com'è, come faranno i naturalisti in letteratura e Zola in primis. E' per questo, dunque, che l'operazione rivoluzionaria di Coubert andava oltre gli steccati comuni delle regole e della tradizione e, magari, scandalizzando, si inseriva in modo prepotente nel mondo dell'arte figurativa restando nel suo genere un vero e proprio unicum.

            Si racconta che Lacan quando ospitava nella sua villa di campagna un ristretto numero di amici, li conduceva in uno stanzino dove c'era sul fondo una tenda verde, egli scostava la tenda e mostrava all'improvviso, alla luce della stanza, l'Origine entro la sua particolare cornice senza vetro e si metteva da una parte ad osservare le reazioni ora stupefatte, ora imbarazzate, ora rapite, ora coinvolte, dei suoi amici, affermando che per uno psicanalista niente era più interessante. E' facile pensare che qualcuno degli ospiti del grande psicanalista sarebbe anche potuto restare vittima della Sindrome di Stendhal, rimanere patologicamente colpito dal fascino del bello, di un bello speciale e ancora più coinvolgente, del bello-erotico di un atto o di un coinvolgimento, il bello dell'oggetto femminile dell'eros non meramente rappresentato come in una fotografia che lo riproduce nella sua realtà naturale, ma dell'oggetto come è visto nella mente di chi vuole possederlo: l'Origine è innanzitutto l'immagine di un desiderio . 


Spettatori in visita all'Origine del mondo di Courbert al Musée d'Orsay

               Ultimamente sui giornali ( lo scoop e di Paris Match ) ed in internet è girata la voce che un antiquario parigino avrebbe venduto per 1400 euro ad un certo John...( è noto solo il nome perché il possessore del dipinto vuole essere anonimo ) un quadretto che mostra il volto di una donna  con i capelli scuri che doveva giacere in un letto con la testa riversa ed un'espressione di evidente partecipazione erotica. Il quadretto, in una cornice di legno dorato, mostra una tela che doveva essere stata tagliata poco sotto il collo e che quindi si riferiva ad un intero corpo nudo. Non vi è firma, ma solo un timbro che rimanda ad un fornitore di materiali artistici che aveva bottega a Parigi dal 1858 al 1869, un certo Deforge-Carpentier. In base a questo o altri indizi gli esperti della Compagnia Nazionale degli esperti specializzati in opere d'arte ( CNE ) di Parigi, pensano che si tratti del ritrattista mondano Carolus-Durant, discreto pittore amico di Manet; ma l'esperta del pittore, Sylvie Brame, rigetta immediatamente l'ipotesi, ma fa un clamoroso nome possibile: Gustave Coubert. John preso da un'ansia compulsiva di fronte a quel nome così importante, fa ricerche su ricerche e una notte insonne, dopo aver passato in rassegna tutte le possibili ipotesi gli viene un sospetto: che il volto non faccia parte di un corpo smembrato il cui pezzo di mezzo è il quadro più scandaloso del mondo e si trova al Musée d'Orsay? Insomma, che L'origine del mondo avesse, insomma, non solo una parte, ma un corpo e un volto? Le proporzioni, del resto potrebbero corrispondere: 33x41 la parte superiore con la testa e 46x55 la parte inferiore con l'Origine. John, entusiasta, si rivolge per una conferma definitiva al più grande esperto vivente di Coubert, Jean Jacques Fernier, autore di un importante catalogo ragionato dell'artista. Fernier conferma e la testa, assegnata a Coubert e soprattutto vista nell'insieme di un corpo e di una parte universalmente famosa, fa schizzare la valutazione possibile dell'opera ad oltre 40 milioni di euro. 

origine del mondo
La copertina di Paris Match che in fotomontaggio mostra il volto e l'Origine del Mondo
         
Dopo una così autorevole conferma, però, iniziano i dubbi. Le due opere sembrano essere estranee l'una all'altra e una possibile ricostruzione non confermerebbe il rapporto fra la testa e il resto. Inoltre l'incarnato magnifico di Coubert non si ritroverebbe nella testa e, infine, il volto della donna non confermerebbe la somiglianza con la sicura modella irlandese del pittore e sua amante, Yoanna Hoffenan, riconoscibile in altre tele, ad esempio nella tela Ritratto di Jo, donna d'Irlanda, del 1866 e nel più grande e scandaloso  dipinto, Pigrizia e Lussuria ( o Il sonno ), del 1866 . come si può vedere la modella in entrambe le opere ha i capelli chiari e ondulati, rossi o biondastri, mentre nell'opera ritrovata i capelli sono neri. 



File:Gustave Courbet - Jo, la belle Irlandaise (MET-Museum).jpg
Gustave Coubert, Ritratto di Yo, La belle irlandaise, 1863



Gustave Coubert, Pigrizia e Lussuria ( o Il sonno ), 1863, Le Graind Palais, Paris

               Il mercante d'arte Hubert Duchem, parla espicitamente di "bufala" perché " nulla dello stile e del tocco allegro di Coubert" si riscontra in un volto che è completamente diverso. L'idea che il committente turco dell' Origine avesse tagliato una tela intera che doveva mostrare un corpo ricavandone dei"quadretti"da portare agevolmente con sé nella sua casa-museo di Istanbul dove aveva una ricchissima raccolta di soggetti erotici, non è dimostrabile da alcun documento e, infine, tanto Marcel Duchamp testimone della prima esposizione dell'opera, quanto i documenti conservati nella biblioteca del Louvre dimostrano che il dipinto è sempre stato senza testa. Dunque la testa non è quella dell' Origine  anche se si tratta di un'opera di Coubert ? In attesa di altri esami non ci si può esprimere, ma il sospetto che si sia voluto screditare o ridimensionare il dipinto più scandaloso del mondo c'è. Anche se resta un dubbio: sul bordo inferiore del dipinto della testa si vede il merletto della camicia da notte. Dunque anche qui la camicia da notte era sollevata come quella del corpo dell'Origine? E però, come mai il bordo della testa non   combacia
con il bordo dell'Origine? E poi. Nell'Origine ad essere sollevata è una camicia o un lenzuolo? Ed ancora, se vediamo con attenzione il Volto e l'Origine, notiamo come il busto dell' Origine sia voltato leggermente a destra, mentre il volto è girato leggermente a sinistra. Un pittore così attento alla resa realistica dei particolari e dell'insieme come Coubert, si sarebbe mai sbagliato? Fernier, pensando al corpo di Yoanna immagina che la donna abbia, come mostrato dal disegno qui sotto, le braccia allargate a dimostrare la pienezza del suo essere. Ma cosa autorizza a credere che la donna avesse le braccia fuori e che le avesse aperte? Possiamo dire, infine, che ancora una volta, l'Origine ha fatto scandalo, ha fatto parlare di sé con la sua pseudo-testa; ma sempre, di certo, farà parlare di sé e catturerà quella che Lacan chiamava " l'appetito dell'occhio". Nella sua casa parigina, come già detto, il grande psicanalista teneva il dipinto di Coubert ben nascosto e lo svelava con accuratezza ai suoi ospiti per vedere le loro reazioni: " C'è un aspetto nell'appetito di chi guarda" scrive, un aspetto che in realtà è "meno elevato di quanto si supponga", l'aspetto di quella che è la vera funzione dello sguardo e dell'occhio: " l'occhio pieno di voracità, che è l'occhio malvagio" .          
                           

   
Sull'opera : Thierry Savatier, Coubert e l'origine del mondo. Storia di un quadro scandaloso, Milano, Medusa, 2008. M. Fried, Le réalisme de Coubert, Paris, 1993; Jean Jacques Fernier, Coubert, Art e Dossier, 99, 1995. Jean Jacques Fernier, Coubert, Catalogo ragionato dell'opera, Paris, 1978, vol. I e II e III, 2012. L'opera completa di Coubert, a c.di P. Courthion, Milano, Rizzoli, 1985. Brunella Schisa, L'origine del mondo. Ma il sesso e la testa ancora non combaciano, Venerdì di Repubblica, 29/3/2013,p.110. L'Unità, 7/12/2013; www. brogi. blog. Info. 2013; Paris Match, 7/02/2013. www. TM. News. it. 2013. www.Ginodigrazia.altervista.org. Georges Bataille, L'erotismo, Biblioteca dell'Eros, Milano, 1997. Esiste un film sull'Origine del mondo : Jean Paul Fargier, L'origine du monde, 1996, 26'.


L'isola che non c'è



                                  Arnold Boklin, L'isola dei morti, 1880, Kunstmuseum, Basilea









"Dove vanno i morti?in Paradiso?in cielo, tra le stelle?Sottoterra?Scendono nel triste Ade con una moneta sotto la lingua per pagare il traghetto di Caronte? Le aspetta la prateria degli asfodeli, oppure come malvagi, il Tartaro-dove, come scriveva Omero,stridono di terrore come uccelli fuggenti? O, come i giusti, i campi elisi? O ancora, l'isola boscosa dei beati-riservata a coloro che vissero virtuosamente? Oppure il grande nulla,dove alla fine di ogni dolore l'individuo si dissolve nel tutto?Qualunque cosa crediate,questo quadro offre una risposta seducente-e chiunque lo abbia guardato ha pensato che non sarebbe male se andasse a finire così"   Melania Mazzucco, L'isola dei morti, "Repubblica" 18/2/2013

File:Isola dei Morti IV (Bocklin).jpg
Arnold Bocklin, L'isola dei morti, maggio 1880, Kunstmuseum, Basilea

" L'isola dei morti è pronta, finalmente, e sono convinto che susciterà l'impressione che desidero. Sestini porterà la cassa dopodomani perché voglio attendere ancora un giorno per l'asciugatura. E' bene che me ne separi, perché altrimenti troverò sempre qualcosa da cambiare...", la lettera del 26 maggio, scritta da Bochlin da Firenze al suo committente Alexander Gunther ( in Hans Helenweg, Introduzione a Isole del pensiero. Arnold Bocklin, Giorgio de Chirico, Antonio Nunziante, Catalogo Electa, Mondadori 2001, pp. 21-22 , della mostra di Fiesole 16/4-19/6 ), evidenzia come l'intuizione che il pittore aveva avuto sulla tentazione di apportare modifiche all'opera fosse giusta, infatti in seguito Bocklin realizzerà dell' Isola ben cinque diverse versioni dal 1880 al 1886. Tutto era iniziato, però, non nello studio di Firenze dove il dipinto venne definitivamente realizzato, bensì un mese prima a Francoforte, dove il quadro era già stato in parte dipinto per ciò che concerne questa particolare isola, un soggetto inquietante e misterioso che gli era stato chiesto da Gunther. Nel suo studio di quella città il pittore ricevette la visita della nobildonna Marie Berna-Christ di Bildstein che chiese al pittore un soggetto figurativo" per sognare". A Marie, nel 1865, era morto il marito di difterite e nella richiesta c'era anche il desiderio di poter ricordare , come in un sogno, la fine tragica di un amore mai rimosso, neanche dopo il recente secondo matrimonio. Di certo l'isola, con la sua suggestione simbolica onirica, già era "un sogno", ma la richiesta di Marie forniva al pittore, ora nuovi stimoli. A Firenze, dove spesso andava a trovare al Cimitero degli Inglesi sua figlia  Beatrice morta dopo un solo anno di vita nel 1876 ( a Bocklin che aveva sposato un'italiana, erano morti sei dei suoi dodici figli ), il pittore ripensò al soggetto del dipinto e vi aggiunse una barca con sopra due inquietanti figure che alludevano ad un trasporto funerario. In una atmosfera autunnale, con un cielo nuvoloso, compatto, circondata da un mare piatto, appena increspato da una leggera brezza, al crepuscolo, con la luce rossastra proiettata sui dirupi, appare una misteriosa isola rocciosa, raccolta in sé come un pane spaccato in mezzo, che racchiude al centro un fitto bosco di altissimi cipressi, con, nelle pareti , diverse aperture buie di sepolcri. E' un luogo di ombre, cimiteriale, di morte, fuori dal mondo e dal tempo. All'isola arriva una barca con ai remi una donna bionda seduta ( la posizione seduta della donna non è adatta ad una remata in avanti verso costa, nella successiva versione il pittore dipinse la donna in piedi e con la remata in avanti ), davanti a lei due inquietanti figure bianche, una in piedi completamente bianca dalla testa ai piedi come un fantasma o una mummia senza bende e una bara in precario equilibrio posta a prua. Sulla bara si proietta l'ombra della figura bianca, di modo che vi sia un rapporto simbolico fra le due immagini. Non vi dovrebbero essere dubbi che la figurina bianca non è altro che Marie e che nella bara vi è la salma del marito. Si tratta quindi di un funerale o, meglio, di un trasporto della bara dal mondo dei vivi a quello dei morti. Fra poco le ombre sommergeranno tutto, l'isola e la barca che sta per giungere all'approdo che si vede appena perché già avvolto nelle ombre della notte eterna. Bocklin voleva dare soprattutto un senso di smarrimento, di sgomento, quasi di paura, di fronte ad un'immagine capace di fornire un'idea di solitudine e di grande assoluto silenzio. Scrive infatti:"Potete immergervi nell'oscuro mondo delle ombre al punto da avere la sensazione di avvertire il leggero, tiepido alito di vento che increspa  il mare, e al punto che, pronunciando una parola a voce alta, avete il timore di disturbare quella quiete solenne" Ed ancora: " Deve dare l'impressione di silenzio così assoluto da spaventarsi se qualcuno bussa alla porta". Il fascino inquietante dell'opera ebbe un successo di critica e di pubblico straordinario e al pittore si guardò con una luce nuova, non solo come il capofila di un simbolismo espresso attraverso una reinvenzione dell'immaginario mitologico. Sino ad allora, infatti, Bocklin, già apprezzato ritrattista e paesaggista, era soprattutto conosciuto attraverso la fase panica e dionisiaca che si era imposta negli anni'60 ed era durata sino a tutti gli anni'80. Un immaginario vitalistico e sensuale agitava il mondo di boschi e di acque, con il dio Pan e le ninfe delle selve e con la corte del dio Poseidone, Tritoni, Nereidi, Sirene, Najaidi. Quadri come Spavento panico del 1860, o Tritone e nereide del 1874, testimoniano di questa fase in cui il pittore si volge, con un rifiuto della modernità, agli amati paesaggi del  centro-sud  Italia, alla mitologia classica, alla pittura primitiva nordica, soprattutto tedesca. Emergeva soprattutto, prepotente e dominante, una figura femminile libera, sensuale, compenetrata con la natura acquatica che la circondava che era espressione di quella femme fatale che aveva attraversato come un incubo fascinoso la cultura della borghesia decadente e che avrà in Bonaccia del 1887 l'esito più completo e fascinoso. Questo aspetto dionisiaco, questa emotività sensuale non si interrompe con l'Isola dei morti. Non si deve pensare ad un rinchiudersi in se stesso del pittore, nella solitudine e nell'angoscia; dopo la III versione dell'Isola , del 1883, nello stesso anno, Bocklin dipinge l'allegro e sensuale Gioco dell'acqua e nel 1887, poco dopo la realizzazione dell'ultima buia versione dell'Isola dei morti , realizza un'allegra ed ironica Isola dei vivi. Si tratta, dunque, non di una svolta, di un cambiamento di stile, ma di un'esplorazione in altri territori del simbolismo e del mito, verso una ricerca dell'ignoto, della propria interiorità e del mondo inquietante delle ombre dell'aldilà. Va inoltre detto che nemmeno il tema della morte non era inedito. Il pittore lo aveva già affrontato nel 1872 con un Autoritratto con la morte che suona il violino. L'immagine mostra il dipinto del pittore come se si guardasse allo specchio mentre dipinge e dove vede, con aria sorpresa e inquieta, l'apparizione della morte che suona una sola corda ( il simbolismo è chiaro: allude allo "stame della vita" quello che sta per essere reciso dalla parca Lachesi; la Morte suona l'ultima sinfonia quella che avverte della fine sempre prossima)  


Arnold Bocklin, Autoritratto con la morte che suona il violino, 1872, Nationalgalerie, Berlin

La presenza della morte-scheletro alle spalle, veniva da suggestioni della pittura nordica, in particolare tedesca  ( si pensi a La fanciulla e la Morte, del 1517, di Hans Baldung al Kunstmuseum di Basilea ), così come il memento mori nelle versioni italiane e tedesche ( Et in Arcadia Eco del  Guercino e l'anamorfosi degli Ambasciatori di Hans Holbin il Giovane, ad esempio ) e dalla Danza Macabra e dagli scheletri animati così frequenti nella pittura tardomedievale germanica; Bocklin riprende il tema in una suggestione simbolica, soggettiva ed emotiva che era anche un segno di un'attenzione particolare a questo tema. Nell'Isola il tema della morte è proiettato in una figura-psichica che suscita angosce nascoste, ma che allo stesso tempo spinge a vedere in quel luogo un rifugio dell'anima. Nella III versione del 1883, presentata col titolo ( toteninsel, Isola dei morti,mentre il pittore continuò a preferire il titolo Isola dei Sepolcri )  scelto dal committente Alexander Gunther, che l'aveva esposta nella mostra di Berlino, Bocklin aveva ambientato la scena all'alba, un'alba fredda d'inverno, come un mare calmo che sembra una lastra di vetro. Sparita la luce rossastra sulle rocce, l'isola appariva di un colore bianco gelido che accentuava il senso mortuario già evidenziato dai cipressi, dagli ingressi scuri ai sepolcri, dal funerale sull'imbarcazione con la bara, le corone di fiori disposte a ghirlanda su di essa, la figura bianca in piedi, misteriosa e inquietante come un fantasma.

File:Arnold Boecklin - Island of the Dead, Third Version.JPG
                                       Arnold Bocklin, L'isola dei morti, 1883, Halte Nationalgalerie, Berlin


Non a caso questo dipinto colpì in particolare Hitler che fece di tutto per acquistarlo ad un'asta e che lo mise nel suo studio nella Cancelleria del Reich, dove si può vedere in una fotografia del 1940, dietro la scrivania, mentre il dittatore conversa con i firmatari del patto scellerato di spartizione della Polonia, Ribbentrop e Molotov : quasi un simbolo, l'isola, della tragedia prossima ventura. L'interesse di Hitler per L'Isola dei morti e l'affezione per quell'immagine in particolare, nasceva dalla particolare attrazione per il senso di distruzione e di morte, una "pulsione di morte" come la definisce Erich Fromm in Anatomia della distruttività umana del 1973. Non a caso il dipinto appare di nuovo in una fotografia del 1945 scattata dai Russi nel bunker dove Hitler si suicidò. Nell'isola vediamo meglio l'approdo che nella prima versione era affogato nelle ombre della sera. Si vede un muro e uno scivolo dove verrà issata la barca non appena giunta all'isola. La livida luce della fredda mattina crea un senso di ansia e di smarrimento che accentua il mistero e il silenzio solenne di cui parlava il pittore. Come si è detto l'Isola è una figura dell'aldilà , per meglio dire è una figura psichica dell'aldilà o ancora una sua proiezione onirica, un sogno  del regno delle ombre. L'aldilà nella cultura figurativa è stato spesso associato all'elemento liquido, o meglio ad una simbiosi di terra e acqua. Il Regno dei morti, L'Ade, è sostanzialmente un luogo sulla terra, o meglio dentro la terra, al quale si arriva per una via d'acqua, attraversando un fiume infernale, ad esempio lo Stige. Nella cultura classica è Caronte che su una imbarcazione, sulle acque dei fiumi infernali, trasporta le anime  alle porte dell'Ade. Una bellissima e significativa interpretazione di questa immaginazione tradizionale in cui si vede Caronte che trasporta le anime sulla laguna Stigia è stata dipinta da Joachim Patnir nel 1520 ed è conservata al Museo del Prado di Madrid. Il pittore olandese era soprattutto un paesaggista, anzi uno dei primi vedutisti, famoso per la particolare qualità dei suoi paesaggi che evidenziano dominanti di verde smeraldo e di blu cobalto, nella vegetazione e nelle acque. In pratica i suoi dipinti sono sempre un pretesto per fare paesaggio e le figure non hanno molta importanza, anzi, sono sempre molto piccole rispetto all'insieme naturale. In questo dipinto ( il titolo è controverso, in genere è accreditato Passaggio agli inferi ma è noto anche come Paesaggio con la barca di Caronte sulla laguna Stigia ), domina un grande silenzio:  vediamo un  largo paesaggio lagunare in cui si vedono due spazi che corrispondono a due fiumi: a sinistra il Lete con la Fonte del Paradiso da cui nasce, le cui acque fanno dimenticare il passato e garantiscono l'eterna giovinezza e al centro il fiume Stige con la barca di Caronte che trasporta l'anima di un dannato verso le Porte dell'Ade a destra di chi guarda. Non ha importanza se Bocklin conoscesse o meno questo dipinto o se ne avesse visto delle riproduzioni, né il fatto che questo dipinto disperda l'emozione dello sguardo, mentre quello di Bocklin lo concentri. Importa considerare che entrambi i pittori, in modalità diverse, abbiano pensato un immaginario comune : il trasporto dell'anima nel Regno dei morti attraverso un luogo che smarrisce e comunica un grande maestoso
Joachim Patinir, Passaggio agli Inferi, 1520c, Museo del Prado, Madrid

silenzio assoluto, appena rotto dallo sciabordio dell'acqua che la barca di Caronte sta solcando. Ed ecco allora che anche l'imbarcazione di Bocklin ( piccola con piccole figure anche questa rispetto alla maestosità dell'isola ) che trasporta un'anima, non è tanto un funerale, quanto un viaggio di Caronte ( il rematore ). Secondo la mitologia greca Caronte era figlio dell'Erebo e della Notte ed aveva il compito di trasportare sul fiume Acheronte ( per Pausania e Dante ) o Stige ( per Virgilio ) le anime che per essere ammesse nell'Ade dovevano pagare un obolo. Bocklin, durante i suoi soggiorni romani, avrà certamente visitato gli affreschi romani con scene dell'Odissea, scoperte in una villa sull' Esquilino nel 1848, oggi nella Biblioteca Apostolica Vaticana. Gli ultimi due affreschi della serie mostrano scene della Nekyia, cioè dell'evocazione dei defunti fatta da Tiresia su richiesta di Ulisse. Si tratta di due scenette. In una la nave dei Greci si avvicina al paese dei Cimmeri che per la cultura greca rappresentavano l'ingresso nell'Oltretomba. A destra un grande arco roccioso che occupa il centro della pittura; in basso Ulisse incontra l'indovino Tiresia. Nell'altra vediamo invece un quadretto lungo e stretto che mostra anche qui un arco naturale con in basso Tizio legato a terra mentre un avvoltoio gli divora il fegato, a sinistra Sisifo che porta in salita dei massi che poi appena arrivato in cima ricadono a valle e deve andarli a prendere e in basso le Daniaidi, condannate a versare acqua con recipienti bucati. Si tratta di penitenti che si trovano nell'Oltretomba a scontare le loro pene. Il dipinto qui sotto è particolarmente suggestivo per le figure ed i colori sfumati. Sappiamo che Bocklin, pur amando la pittura rinascimentale veneta e romana, specie Tiziano e Raffaello e avendo superato la fase paesaggistica ispirata a Poussin e a Lorrain, aveva mostrato un forte interesse per la pittura antica romana, per questi paesaggi particolarmente suggestivi.  



                  Affresco romano staccato dell'Esquilino, Odisseo e Tiresia alle porte dell'Ade, Biblioteca Apostolica Vaticana


L'immaginazione più vicina all'idea di isola come luogo dell'Oltretomba è quella del mito dell'Isola dei Beati, ( o meglio di Isole dei Beati o Isole Fortunate ) che si trovavano nell'Oceano Occidentale oltre le Colonne d'Ercole, identificate da alcuni con le Isole Canarie. Lo storico Giuseppe Flavio, riprendendo la concezione delle maginazione più vicina all'idea di isola come luogo dell'Oltretomba è quella del mito dell'Isola dei Beati, ( o meglio di Isole dei Beati o Isole Fortunate ) che si trovavano nell'Oceano Occidentale oltre le Colonne d'Ercole, identificate da alcuni con le Isole Canarie. Lo storico Giuseppe Flavio, riprendendo la concezione dualistica, secondo la quale le anime degli uomini vengono dal più perfetto etere, però restano imprigionate sino alla morte nella schiavitù della carne; solo dopo la morte potranno dirigersi verso l'Isola dei Beati, mentre colore che non sono riusciti in vita a liberarsi delle impurità dovranno essere puniti penetrando nelle viscere di un'oscura caverna. Di un arcipelago di Isole Felici oltre le Colonne d'Ercole, non diverse dai Campi Elisi, o di un' Isola Felice non diversa dal Paradiso Terrestre , parlano diversi racconti di viaggio, in particolare la Navigatio sancti Brendani, del monaco irlandese S. Brandano. L'originale latino del X secolo è tramandato da numerosi manoscritti in gaelico, latino e tedesco. Per arrivare all'isola, Brandano ed i suoi monaci attraversano un mare tenebroso e immobile avvolto dalle nebbie. Sull'isola ci sono ricchezze di ogni tipo, minerarie e vegetali, fiumi di latte e di miele. E' un luogo felice destinato alla gratificazione e al riposo di Beati, delle anime elette. Il rapporto simbolico fra acqua e morte è presente nell'immaginario classico tanto nel mito del Paradiso Terrestre, quanto in quello dell'Isola dei Beati, quanto in quello del Purgatorio ( sottolineato in particolare da Dante ), che è un'isola situata nell'emisfero australe, con in cima il bosco sacro del Paradiso Terrestre. l'acqua, infatti, è anche un elemento di dissoluzione e annegamento, oltre che sorgente di vita e il suo carattere lustrale vale  per esaltare la sua presenza simbolica come elemento rituale di purificazione tanto nei riti di iniziazione alla vita, quanto in quelli di iniziazione al viaggio nell'altra vita, nell'aldilà. Inoltre, nell'oceano occidentale il sole che tramonta all'orizzonte tutte le sere ha la funzione simbolica di riscaldare, durante la notte, il Regno dei morti. Il rapporto fra acqua e morte, infine, è ben presente nelle pitture funerarie dei sepolcri etruschi dell'Etruria meridionale, il cui simbolismo funerario è stato in modo illuminante studiato e interpretato da Jacob Branchofen. E il critico Norbert Schneider, come sottolinea Marisa Volpi, aveva collegato un brano dello storico svizzero, che aveva visitato le necropoli di Cerveteri e Tarquinia nel 1842, sulla vicinanza fra i sepolcri e le acque del mare, alle varie redazioni dell'Isola dei morti di Bocklin. Branchofen, per primo aveva intuito come nella rappresentazione funeraria si celebrava la vita sociale in una particolare vitalità espressa anche in funzione della presenza simbolica dell'acqua ( tuffatori, nuotatori, sirene, dei del mare ). E questo vitalismo è ancora una volta nella pittura di Bocklin, che non a caso, non tanto per contrastare, rovesciare o semplicemente ironizzare, quanto per vedere il doppio simbolico-mitico dell'Isola dei morti , dipinge l'Isola dei vivi, che è del 1887, in cui il rapporto è fra acqua  e vitalità, con figure mitologiche del mare che attraversano a guado l'acqua bassa in corteo, mentre sull'isola verdissima, si articola un'allegra danza. 


Arnold Bocklin, L'isola dei vivi, 1887, Kunstmuseum, Basilea

I sepolcri che si vedono nelle varie versioni dell'Isola dei morti nelle pareti di roccia sono il simbolo dell'eternità dell'altra vita e l'ingresso buio alle camere sepolcrali nel ventre della montagna l'ingresso nell'ombra, il transito dalla vita alla morte. Vi sono buone possibilità che Bocklin avesse ripreso i sepolcri della necropoli della Banditaccia a Cerveteri che aveva visitato nei suoi viaggi nell' Etruria meridionale. Le tombe sono del tipo a parete con l'ingresso su di una faccia squadrata, con qualche rapporto figurativo con quelle che appaiono nell'Isola. Il fatto che questo tombe si trovino in un contesto arboreo piuttosto esteso   è

File:TombaDadoBanditaccia.jpg
Necropoli della Banditaccia, Cerveteri.


un ulteriore aspetto significativo e si veda la presenza del cipresso ( ve ne erano altri nel XIX secolo )  proprio dietro la tomba. Si tratta dunque di un materiale figurativo che faceva parte del patrimonio culturale e visionario del pittore, oggetto di schizzi e prove di pittura che serviranno in seguito alla creazione della complessità dell'immagine. Gli studi umanistici, la lettura dei poemi omerici e della letteratura mitologica approfondita anche attraverso lo studio figurativo necessario all'illustrazione de Gli dei della Grecia di Schiller che gli era stata commissionata dall'editore Cotta nel 1859, erano serviti al pittore per la sua visionaria reinvenzione, vitalistica e onirica, ironica e umoristica, magica e folklorica. Il rapporto fra paesaggio e figure del mito e del culto pagano, vedono spesso una prevalenza della maestosità della natura ( che è diversa dal classicismo di Poussin, dall'idealismo romantico e dal moderno impressionismo ), la quale è vista in una realtà" fotografica" misteriosa e solenne, in cui le figure spesso sono rimpicciolite in mezzo alla maestosità del bosco o del mare. La miniaturizzazione della figura umana di fronte al paesaggio, crea un effetto quasi straniante che accentua il senso di mistero. La figurina bianca della barca dell'Isola dei morti che in piedi accompagna la bara bianca ( il colore bianco, nella cultura mediorientale è simbolo morturaio, è il colore del lutto e quello del sudario che veste il morto; nell'iconografia occidentale di bianco sono vestite le anime dei Beati nel Giudizio Universale, così ad esempio in Giotto, nella cappella degli Scrovegni ), è stata interpretata per lo più come una mummia senza bende; però vi può essere un'altra interpretazione: è l'immagine di una sacerdotessa. Bocklin ci mostra un'immagine identica in un suo suggestivo quadro del 1884, Il bosco sacro , in cui le immagini di sacerdoti e sacerdotesse vestite con tuniche bianche si recano in processione al fuoco sacro e lo omaggiano in ginocchio in un rito pagano.


Arnold Bocklin, Il bosco sacro, 1884, Kunstmuseum, Basilea


Le pennellate fotografiche del pittore rivelano soprattutto il realismo quasi magico e misterioso, ma allo stesso modo solenne, del bosco, mentre le figurine bianche sono miniaturizzate, vengono assorbite dall'aspetto grandioso e sacro della natura primaverile e solare accentuando il senso di misteriosa solennità rituale. Se guardiamo le due figure inginocchiate davanti al fuoco sacro, irreali come fantasmi o anime dei morti ( le figurine non hanno ombre ), vediamo che sono vestite con una tunica dalla testa ai piedi. Se potessimo metterne una in piedi e girarla di schiena avremmo la stessa figurina che si vede nella barca dell'Isola dei morti . Potremmo dire che è vestita come un sacerdote di culti misterici. E' possibile che    il  


                                                                  L'isola dei morti, particolare

pittore già nel 1880, dopo l'incontro con Marie, avesse pensato con studi e disegni di supporto a questo tipo di figurina proprio intesa come quella di un sacerdote o di una sacerdotessa del culto dei morti, idea che poi riprese nell''84 con il Bosco sacro. A mio avviso la figurina non è propriamente Marie, anche se molto critici hanno pensato ad un suo travestimento simbolico come accompagnatrice dell'anima beata del defunto, quanto una  proiezione onirica di Marie ( la donna aveva chiesto un "quadro per sognare " ), che sarebbe la donna bionda ai remi, in veste di sacerdotessa del culto della morte che accompagna la bara bianca ( in verità, come vediamo dall'ingrandimento qui sopra, la bara non è bianca, è solo coperta da un drappo o sudario bianco ) nell'ultimo viaggio verso l'Isola dei morti. Queste inquietanti presenze vestite di bianco spiccano ancor più e offrono allo sguardo un maggior senso di sacralità e mistero, nel paesaggio ripreso all'alba con le ombre ancora dentro il bosco e il fuoco sacro dalle fiamme aranciate, in una versione del 1886  de Il bosco sacro, in cui è più evidente il richiamo alla pittura nordica tedesca, non solo a quella dei primitivi  



                                                                    Arnold Bocklin, Il bosco sacro, 1886, Kunsthalle, Hamburg.
ma anche a quello di un pittore romantico tenebroso e simbolico come David Kaspar Friedrich, in cui la figura umana è spesso miniaturizzata o quanto meno emarginata di fronte al maestoso spettacolo della natura affascinante, tenebrosa e misteriosa. La figura ammantata non più bianca, ma blu, come inquietante presenza, ricompare in un altro bellissimo dipinto di Bocklin, Odisseo e Calipso, dipinto nello studio di via dei Cherubini a Firenze dove era anche stata l'Isola dei morti. La figura in blu, di spalle, tutta coperta, è Ulisse-Odisseo stesso, osservato da una seminuda Calipso, mentre in solitudine medita sulla sua patria lontana in piedi sulla scogliera dell'isola Ogigia patria della ninfa ( Od. VII, 244-257 ). Come ha sottolineato Marisa Volpi, " l'isola di Calipso, come quella di Circe, potrebbe essere un luogo di morte, al quale Odisseo decide di sfuggire", dopo aver rifiutato l'immortalità che Calipso, innamorata di lui,  gli aveva offerto. Oppure il manto blu scuro potrebbe avere valore come segno di lutto che la visione simbolista del pittore vedeva per avere Ulisse abbandonato la giovinezza indicata simbolicamente dal drappo color rosso sul quale è seduta Calipso davanti alla grotta sacra sua dimora.

Arnold Bocklin, Odisseo e Calipso, 1883, Kunstmuseum, Basilea
  
             La visione pittorica per l'isola dell' Isola dei morti,  nasce certo da modelli reali. Si è pensato all'isolotto di Pontikonissi davanti all'isola ionica di Corfù dove i Feaci lasciarono Ulisse, ma poteva essere più un modello di immaginazione letteraria piuttosto che un referente reale, perché è certo che Bocklin non lo aveva mai visto. Il critico Saltan Mayer, invece aveva individuato l'Isola di S.Giorgio nelle bocche del Cattaro che è certo molto più suggestiva , con i suoi alti cipressi e che forse il pittore aveva visto, ma è piatta e in definitiva poco somigliante.

File:Two.islands.inKotorGulf.jpg
Isola di S. Giorgio, Bocche del Cattaro


Halenweg, aveva invece puntato l'attenzione su Ischia che invece il pittore conosceva molto bene e in particolare allo sperone roccioso con il castello di Alfonso d'Aragona di fronte al quale c'era un cimitero con alti cipressi e dove, nella vicina villa Drago, Bocklin alloggiò nel 1879.


Ischia, Castello di Alfonso d'Aragona
Sebbene non vi sia molta vegetazione e nessun cipresso il promontorio col castello è certo molto suggestivo come modello dell'isola, specie per quelle pareti a fronte mare e per l'insieme di muratura e roccia a fronte mare. Bocklin avrà certamente disegnato il promontorio, come poteva averlo fatto per i cipressi del cimitero che era proprio vicino a casa sua, senza contare il fatto che doveva avere certo importanza anche il Cimitero degli Inglesi a Firenze con i suoi cipressi. Quindi si può pensare ad un'opera di composizione fra le due immaginazioni visive che creano una visionaria isola dei morti, un luogo onirico dell'aldilà. Un dipinto di una misteriosa villa  ( collegato alla morte, come mostra la figura in primo piano sulla spiaggia vestita di nero, quindi in lutto, con aria mesta e la mano sul mento in segno di sconforto, forse una vedova ) su di uno sperone di roccia con una veranda classica, un propileo con colonne doriche e grandi alberi alti, è dipinta da Bocklin nel 1864-1865. Come possiamo vedere qui sotto  il mare è calmo anche se spumeggiante a riva, le piante sono colpite dal vento di mare che piega la cima delle fronde. E il silenzio che dominerebbe il luogo   è assoluto ed inquietante ( un silenzio di morte, non diverso da quello dell' Isola, non un silenzio di serena campagna a fronte mare ) se non fosse appena scosso dal fruscio del vento fra le foglie.

Arnold Bocklin,  villa sul mare, 1864-65, Bajerische Staatsgemaldesammulungen, Munich.

In questa immagine domina l'associazione fra la perdita, l'abbandono, la solitudine, la morte ed il mare; Bocklin questi aspetti li aveva sempre avuti nella sua mente visionaria e nella sua pittura dopo la svolta simbolista e la presenza di un luogo solitario come luogo della morte, questa villa del '65 come l'isola di Ogigia in Odisseo e Calipso ,riprodotta qui, più sopra, dell''83, scuotevano il suo animo di pittore inquieto,originale, parlavano al suo cuore di padre che aveva visto tanti figli morti ( nel 1885 aveva dipinto una sconvolgente Pietà- l'opera è perduta- in cui si vede di nuovo la figura in nero col volto coperto che si piega sul corpo nudo di Cristo sul sepolcro, mentre dal cielo emergono i figli del pittore che si sporgono in basso verso la donna in lutto ), scuotevano le corde sensibili del silenzioso mesto distacco dalla vita e al lento avvicinarsi all' isola della morte. Certo Bochlin, anche se l'approdo all'isola è al tramonto, avrà tenuto presente le parole di Omero che nel VII dell'Odissea fa parlare Ulisse ( personaggio emblematico, espressione di una straziante solitudine in riva al mare della vita e della morte, e si pensi ad Odisseo sulla spiaggia del 1869 ) : "...nella decima notte nera all'isola Ogigia mi accostarono gli dei, dove Calipso vive, riccioli belli, terribile dea...". E chissà se Bocklin, che leggeva L'Orlando Furioso in italiano e conosceva l'interpretazione pittorica simbolista di Dante, non avesse letto il XXVI canto dell'Inferno e del momento del passaggio di Ulisse dall'avventurosa vita all'improvvisa morte, proprio davanti all'isola-montagna del Purgatorio :

    Tutte le stelle già de l'altro polo
vedea la notte e 'l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.

Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,

quando n'apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.


BIBLIOGRAFIA:   

Marisa Volpi, Bocklin, Art Dossier, n.165, 2001
Han Halenweg, Introduzione a Isole del pensiero, Arnold Bocklin, Giorgio de Chirico, Antonio Nunziante, Catalogo della mostra del 2011 a Fiesole, Mondadori, Electa, 2011.
www Wikipedia, Bocklin, Isola dei morti, Il bosco sacro, l'isola dei vivi, la villa sul mare, Odisseo e Calipso, Autoritratto con la morte,  Patnin, passaggio agli inferi, simbolismo, simboli: mare, acqua, morte.
Erich Fromm, Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano, 1973
www, Diego Fusiol tracce freudiane, la morte
Matilde Battistini, Simboli e allegorie, Electa, 2002
Arturo Graf, Miti, leggende, superstizioni del Medio Evo, Mondadori, Milano, 1984 ( Il mito del Paradiso Terrestre )
Hans Biederman, Simboli, Garzanti, Milano,2005
Marcella Farioli, Mundus alter, Milano, Feltrinelli,2001



             






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Un Cristo che non risorge





                                                             IL CRISTO CHE NON  RISORGE


Hans Holbein il Giovane, Cristo nella tomba, olio su legno, 1522 circa cm 30,5 x 200, Kunstmuseum di Basilea.  

                                     " questo quadro può far perdere la fede" F. Dostoevskij, L'idiota.

065
Hans Holbein il Giovane, Cristo morto, 1522, Basilea
 
Il Cristo morto di Hans Holbein il Giovane, figlio talentuoso del pittore tedesco Han Holbein il Giovane, è una delle opere più sconvolgenti di tutta la storia dell'arte occidentale. In una tavola alta poco più di 30 cm e lunga 2 m, usata probabilmente come predella d'altare, è figurato in prospettiva, sdraiato sul sudario, il Cristo molto da alcuni giorni in uno stato di avanzata putrefazione. Non ci sono accanto apostoli, non c'è la Maddalena, non c'è Maria, non c'è alcun angelo salvifico del Signore, c'è solo un cadavere enfiato con le macchie ipostatiche nere, scheletrico, segnato dalle percosse del martirio. Un'immagine assolutamente sconvolgente. Quando nel 1836 Dostojevskij si recò a Basilea a vederla rimase immobilizzato per ore, senza parlare, sconvolto. E se ne ricordò quando scrisse L'idiota in una famosa pagina in cui si narra di quando il principe schizofrenico ed epilettico Myshkim si reca nella casa del passionale, ricco e nichilista Rogozin e vede sopra la porta d'ingresso della sua stanza un'ottima riproduzione del Cristo di Holbein. Ma ascoltiamo la conversazione che si sta facendo nella stanza fra il principe ed il cittadino Rogozin:

"Ma questa...questa è una copia di Hans Holbein"disse il principe, che intanto aveva osservato meglio in quadro, "e,sebbene io non sia un grande intenditore,mi pare che sia un'ottima copia.Questo quadro io l'ho hià visto all'estero en non l'ho mai potuto dimenticarlo. Ma che ti prende?...[...] "Dimmi un po',Lev Nikolàevic,era già un pezzo che volevo chiedertelo:tu credi in Dio o no?" riprese a dire improvvisamente Rogozin, dopo aver fatto qualche passo." Che strano modo di far domande il tuo...e di guardarmi!"esclamò involontariamente il principe. "A me piace contemplare questo quadro", mormorò Ragozin dopo una pausa di silenzio, come se di nuovo della domanda che aveva fatto."Questo quadro!"gridò il principe, come colpito da un'idea improvvisa,"questo quadro!..."ripeté" Ma questo quadro può far perdere la fede!"."Infatti, la si può perdere" confermò inaspettativamente e all'improvviso Rogòzin

Se gli apostoli e lo stesso Cristo avessero potuto vedere la corruzione della carne, il cadavere immobile nel sepolcro senza luce e senza aria non avrebbero creduto alla Resurrezione come non poteva crederci il principe Myskkim e questo aspetto Dostoieskij lo aveva ben sottolineato nell'Idiota , quando aveva ancora nella mente la sconvolgente immagine che aveva visto. Di fronte alla cruda realtà del disfacimento del corpo ci si può chiedere come può esserci continuità dopo la vita, come sia possibile, anche per il cristiano, credere alla Resurrezione e alla Redenzione, alla sconfitta della morte anche da parte del figlio di Dio. Dovevano essere gli stessi dubbi di Holbein quando nella Basilea attraversata dai venti del riformismo luterano e già imbevuto della lettura di Erasmo da Rotterdam che conobbe personalmente e divenne suo amico, a poco più di 22 anni, si accingeva a dipingere questo sconvolgente dipinto. Il quadro di Holbein ha esercitato sempre, sin dai suoi tempi un fascino sinistro e morboso e lo esercitava in particolare quando era collocato nella cattedrale sopra l'altare maggiore. La morte esercita un suo fascino, trascina gli sguardi. Ha scritto Bataille che l'abisso, la morte, può esercitare su di noi una particolare attrazione; e questa attrazione rappresenta un'attesa di continuità che viene inesorabilmente vanificata proprio dalla fine, dalla morte "da qui l'atto della sepoltura, del nascondimento, del segno manifesto della discontinuità dell'esistenza" ( Bataille, L'Erotismo, 20-50 ) . E la morte, al pari della sessualità, si basa sul divieto, sulla negazione atavica e allo stesso modo appunto esercita un'attenzione morbosa, un desiderio di trasgressione. La morte di Cristo uomo, ripresa nella sua nuda crudezza , come mostra Holbein nella sua istantanea nella tomba, è motivo della raffigurazione dei pittori riformisti tedeschi come Grunewald, che seguendo la predicazione luterana, sono soprattutto attenti alla croce, ai tormenti, al supplizio, all'agonia. Sono gli stessi aspetti che sono stati ripresi dal regista Mel Gibson in The Passion of Christ, del 2004 dove gli effetti orribili del sacrificio mostrati in larga misura con dubbio gusto hanno attratto appunto numerosi spettatori, trascinati in particolare dal carattere morboso delle scene, più che dalla sincera pietà cristiana

Mel Gibson, The Passion of Christ, 2004
Holbein nella realizzazione del dipinto ha proceduto con assoluto rigore, quasi con scrupolo scientifico,visitando qualche camera mortuaria degli ospedali di Basilea e guardando gli effetti della morte sul corpo. Se vediamo da vicino alcuni aspetti del cadavere, certamente impressionanti, vediamo come il pittore si sia interessato a studiare la dislocazione delle macchie ipostatiche e alla loro colorazione nerastra dopo una decina di giorni dalla morte.

    

Hans Holbein il Giovane, Cristo nella Tomba

Guardiamo le macchie sui piedi anneriti e sulla mano; esse fanno più impressione della ferita sul costato e del foro slabbrato del chiodo sul dorso della mano. Allo stesso modo fa molta impressione il rigor  delle dita rattrappite, annerite e scheletriche della mano. Si diceva che il grande pittore greco Apelle, del quale purtroppo non possediamo pitture superstiti, dipingeva i cadaveri con solo tre colori. Allo stesso modo Holbein ne fa economia, il bianco dei lenzuoli, l'incarnato, le sfumature di grigio e di nero, le linee di seppia e bruno, un accenno di rossastro. Niente altro. I colori della morte sono pochi, freddi, impressionanti. Guardiamo lo sconvolgente volto del Cristo morto.

 

Il naso affilato e annerito con le narici aperte, la bocca con le labbra secche, aperta anch'essa a segnare l'ultimo estremo atto dell'agonia, come a voler inghiottire tutta l'aria possibile prima di spirare. E guardiamo questi impressionanti occhi senza vita ( se ne vede uno solo che esprime tutto lo strazio dell'attimo finale ); il bulbo bianco è afflosciato, la pupilla inanimata è sollevata, la palpebra gonfia. Chi guarda il lenzuolo della Sacra Sindone, al di là del fatto che possa o meno essere un volto dipinto o ritoccato di fattura medievale, non vede l'immagine di un cadavere come quello dipinto da Holbein, pur nella sua drammaticità, con i segni evidenti del martirio, vede il volto di un uomo più sereno, più disteso, con gli occhi chiusi.

Volto della Sacra Sindone, Torino


Di fronte a questo volto, che è pur sempre il volto di un uomo morto, di un cadavere, al di là del suo stato di reliquia, al di là del valore cultuale, è un volto che quasi spinge a credere nella possibilità successiva della Resurrezione, alla Redenzione degli uomini per il tramite del Sacrificio. Senza entrare nel merito del falso che la datazione al Radiocarbonio 14 ( sembra oggi in parte smentita da nuove analisi ) attesterebbe al Trecento, si potrebbe dire che è un'icona più convincente e meno straziante; non mette a tu per tu con il dramma dell'ineluttabile, della fine. Il dipinto di Holbein no. Nel sepolcro angusto e senza aria il cadavere in decomposizione non lascia margini, non induce a riflessioni positive. Dopo non c'è nulla. Il Cristo è morto. Dio è niccianamente morto. La raffigurazione realistica della passione era un  impegno dei pittori tedeschi  pre-riformisti eccitati dalla lettura di Erasmo; Grunewald è quello che meglio esprime questo crudo realismo. La crocefissione, alla quale pure Gibson deve essersi ispirato, è sicuramente quella più drammatica della storia dell'arte di tutti i tempi.

Matthias, Grunewald,Crocifissione di Cristo, 1512-16 olio su tavola,  Museé di Unterlinden, Colmar

Matthias Grunewald, Crocefissione di Cristo, particolare


Ha scritto Gombrich  che Grunewald, alla pari di un predicatore della Passione, non si è risparmiato nulla a livello descrittivo pur di rappresentare l'insieme degli orrori dell'agonia di Gesù Cristo. " il corpo moribondo del Cristo è deformato dalla tortura della croce;le spine dei flagelli penetrano nelle ferite suppuranti che ricoprono l'intera figura. Il sangue rosso  scuro contrasta nettamente con il verde smorto della carne. Cristo esprime il significato della sua sofferenza attraverso le fattezze ed il gesto commovente delle mani" ( H.Gombrich,St.Arte,1997,350-52 ).E proprio del gesto agonizzante delle mani si è ricordato Holbein quando ha realizzato il suo Cristo.


Grunewald, Crocefissione, particolare di una mano.


Holbein, Cristo nella tomba, La mano di Cristo


La tavola realizzata da Grunewald per l'altare dell'Ospizio di Isenheimer obbediva a precisi intenti teologici che la guida iconologica del pittore suggeriva con l'intento di mostrare agli ospiti del luogo quali tormenti infinitamente più grandi dei loro aveva dovuto subire Cristo, con la volontà di ispirare la pietà cristiana e nel contempo di portare ad una maggiore sopportazione dei loro tormenti quotidiani. La tavola di Holbein invece sembra rispondere più ad una esigenza personale del pittore, ad esprimere il proprio personale tormento interiore di cristiano. Nella realizzazione del dipinto Holbein non ha solo guardato a Grunewald, ma è possibile, non certo, che si sia è ispirato anche a Mantegna, al suo Cristo morto oggi all'Accademia di Brera a Milano. Un viaggio di Holbein in Lombardia intorno al 1518 sarebbe testimoniato dalla presenza di architetture lombarde, ad esempio nel Dittico con Cristo e la Vergine, del 1519 a Basilea nell'Offentliche Kunstsammenlung o di influenze foppiane e dello stesso Mantegna nell'Altare della Passione dell'Offentliche di Basilea, del 1520-24. Il viaggio non è certo e soprattutto non lo è la conoscenza del Cristo morto che  si trovava nella bottega del Maestro destinato probabilmente a suo culto privato e che venne in seguito acquisito da Sigismondo Gonzaga presso la cui collezione mantovana doveva trovarsi nel 1518 data del possibile viaggio di Holbein. Però il pittore doveva averne certamente una copia o stampa a bottega. Il Cristo morto ( o meglio il   Lamento sul Cristo Morto  ), con la sua suggestiva inquadratura" in scurto", presa dai piedi secondo un'evoluzione delle straordinarie visioni prospettiche dell'artista, già sperimentate a Palazzo Ducale, è soprattutto una scena di lamentatio , come mostrano le figure dei tre piangenti ( Maria, Giovanni, e sul fondo, in ombra, in atteggiamento disperante, la Maddalena )accanto al corpo morto, esprimendo così una immagine di  pietas secondo il modello italiano del Compianto . Il corpo non è solo , è vegliato e compianto, appena deposto dalla croce. Non è dunque nella tomba e nella sua cruda solitudine, anche se i segni del rigor mortis evidenziano un'attenzione del grande artista agli aspetti realistici della morte. Esisterebbe, però, un secondo Cristo morto nella stessa posizione e senza i dolenti, quindi senza compianto, nella sua tragica solitudine. L'ipotesi è ancora da verificare però una copia tardo cinquecentesca di Glenn Head, lo mostra proprio così. Che dunque vi fossero delle copie anche di questa possibile versione nella bottega di Holbein?

Cristo morto
Andrea Mantegna, Lamento sul Cristo morto, 1475-78 Pinacoteca di Brera, Milano
In ogni caso l'immagine poteva essere un importante esempio di studio nella visione prospettica audace e nella disposizione delle braccia ( semidistese ). Holbein cambia il punto di vista che diventa laterale ed estende ancor più le braccia che si adattano allo spazio ristretto della tomba. 

File:Copia del Cristo morto, Glen Head (New York), Collezione De Navarro.jpg
Glenn Head, Copia del Cristo morto del Mantegna, coll.De Navarro, New York 

Holbein conobbe bene Erasmo e L'elogio della follia e grazie a lui, quando fu stufo di dipingere per i committenti luterani e doverne in qualche modo subire una fede nella quale non credeva completamente, si recò a Londra e conobbe Tommaso Moro iniziando a lavorare per la corte inglese restando un cattolico erasmiano, nemico di ogni vanitas. A Londra realizzò il notissimo Gli ambasciatori, del 1533, conservato nella bellissima Sala C della National Gallery di Londra. Si tratta di un olio su tavola molto grande di oltre 2m di lato che mostra due ambasciatori francesi in un contesto figurativo dove domina la vanitas  ( lusso, cultura, ricchezza, opulenza ) se non che uno strano oggetto oblungo disturba la bellezza dell'insieme: si tratta di una anamorfosi, la più bella della storia dell'arte, un artificio prospettico che permette all'osservatore, che accortamente si sarà spostato di lato, di vedere in quella strana forma di siluro opalescente, la vera immagine:
un teschio alquanto impressionante: insomma, in ogni splendore, in ogni vanitas, si nasconde vigile e terribile, la morte in tutta il suo crudo realismo. Holbein quindi non si è allontanato dal Cristo morto nella lussuosa e comoda vita londinese di ritrattista di corte, ne ha ripreso la cruda presenza. Non c'è vera bellezza, come pensava il principe schizofrenico dell'Idiota , si può solo al più vederla in un'altra realtà, in un suo doppio, nella follia, di cui parlava l'amico di Holbein, Erasmo da Rotterdam, nell'Elogio

Hans Holbein il Giovane, Gli ambasciatori, 1533, National Gallery, London

File:Skull-Ambassadors.jpg
L'anamorfosi in alto svelata
Bibliografia:
Fedor Dostoevskij, L'idiota, Milano, Mondadori, 2004
Hans Werner Grohen, Hans Holbein il giovane, Milano, 1964
Roberto Salvini, L'opera completa di Hans Holbein il giovane, Milano, Rizzoli, 1971
M.Volvelle, La morte e l'occidente. Dal 1300 ai nostri giorni, Bari, 1983
E.Gombrich, La storia dell'arte, Milano, 1997, pp.350-357
Myers e Jeffery, Holbein and Idiot, 1975.
wikipedia, holbein, cristo nella tomba e tutte le immagini.