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venerdì 27 dicembre 2013

Un Cristo che non risorge





                                                             IL CRISTO CHE NON  RISORGE


Hans Holbein il Giovane, Cristo nella tomba, olio su legno, 1522 circa cm 30,5 x 200, Kunstmuseum di Basilea.  

                                     " questo quadro può far perdere la fede" F. Dostoevskij, L'idiota.

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Hans Holbein il Giovane, Cristo morto, 1522, Basilea
 
Il Cristo morto di Hans Holbein il Giovane, figlio talentuoso del pittore tedesco Han Holbein il Giovane, è una delle opere più sconvolgenti di tutta la storia dell'arte occidentale. In una tavola alta poco più di 30 cm e lunga 2 m, usata probabilmente come predella d'altare, è figurato in prospettiva, sdraiato sul sudario, il Cristo molto da alcuni giorni in uno stato di avanzata putrefazione. Non ci sono accanto apostoli, non c'è la Maddalena, non c'è Maria, non c'è alcun angelo salvifico del Signore, c'è solo un cadavere enfiato con le macchie ipostatiche nere, scheletrico, segnato dalle percosse del martirio. Un'immagine assolutamente sconvolgente. Quando nel 1836 Dostojevskij si recò a Basilea a vederla rimase immobilizzato per ore, senza parlare, sconvolto. E se ne ricordò quando scrisse L'idiota in una famosa pagina in cui si narra di quando il principe schizofrenico ed epilettico Myshkim si reca nella casa del passionale, ricco e nichilista Rogozin e vede sopra la porta d'ingresso della sua stanza un'ottima riproduzione del Cristo di Holbein. Ma ascoltiamo la conversazione che si sta facendo nella stanza fra il principe ed il cittadino Rogozin:

"Ma questa...questa è una copia di Hans Holbein"disse il principe, che intanto aveva osservato meglio in quadro, "e,sebbene io non sia un grande intenditore,mi pare che sia un'ottima copia.Questo quadro io l'ho hià visto all'estero en non l'ho mai potuto dimenticarlo. Ma che ti prende?...[...] "Dimmi un po',Lev Nikolàevic,era già un pezzo che volevo chiedertelo:tu credi in Dio o no?" riprese a dire improvvisamente Rogozin, dopo aver fatto qualche passo." Che strano modo di far domande il tuo...e di guardarmi!"esclamò involontariamente il principe. "A me piace contemplare questo quadro", mormorò Ragozin dopo una pausa di silenzio, come se di nuovo della domanda che aveva fatto."Questo quadro!"gridò il principe, come colpito da un'idea improvvisa,"questo quadro!..."ripeté" Ma questo quadro può far perdere la fede!"."Infatti, la si può perdere" confermò inaspettativamente e all'improvviso Rogòzin

Se gli apostoli e lo stesso Cristo avessero potuto vedere la corruzione della carne, il cadavere immobile nel sepolcro senza luce e senza aria non avrebbero creduto alla Resurrezione come non poteva crederci il principe Myskkim e questo aspetto Dostoieskij lo aveva ben sottolineato nell'Idiota , quando aveva ancora nella mente la sconvolgente immagine che aveva visto. Di fronte alla cruda realtà del disfacimento del corpo ci si può chiedere come può esserci continuità dopo la vita, come sia possibile, anche per il cristiano, credere alla Resurrezione e alla Redenzione, alla sconfitta della morte anche da parte del figlio di Dio. Dovevano essere gli stessi dubbi di Holbein quando nella Basilea attraversata dai venti del riformismo luterano e già imbevuto della lettura di Erasmo da Rotterdam che conobbe personalmente e divenne suo amico, a poco più di 22 anni, si accingeva a dipingere questo sconvolgente dipinto. Il quadro di Holbein ha esercitato sempre, sin dai suoi tempi un fascino sinistro e morboso e lo esercitava in particolare quando era collocato nella cattedrale sopra l'altare maggiore. La morte esercita un suo fascino, trascina gli sguardi. Ha scritto Bataille che l'abisso, la morte, può esercitare su di noi una particolare attrazione; e questa attrazione rappresenta un'attesa di continuità che viene inesorabilmente vanificata proprio dalla fine, dalla morte "da qui l'atto della sepoltura, del nascondimento, del segno manifesto della discontinuità dell'esistenza" ( Bataille, L'Erotismo, 20-50 ) . E la morte, al pari della sessualità, si basa sul divieto, sulla negazione atavica e allo stesso modo appunto esercita un'attenzione morbosa, un desiderio di trasgressione. La morte di Cristo uomo, ripresa nella sua nuda crudezza , come mostra Holbein nella sua istantanea nella tomba, è motivo della raffigurazione dei pittori riformisti tedeschi come Grunewald, che seguendo la predicazione luterana, sono soprattutto attenti alla croce, ai tormenti, al supplizio, all'agonia. Sono gli stessi aspetti che sono stati ripresi dal regista Mel Gibson in The Passion of Christ, del 2004 dove gli effetti orribili del sacrificio mostrati in larga misura con dubbio gusto hanno attratto appunto numerosi spettatori, trascinati in particolare dal carattere morboso delle scene, più che dalla sincera pietà cristiana

Mel Gibson, The Passion of Christ, 2004
Holbein nella realizzazione del dipinto ha proceduto con assoluto rigore, quasi con scrupolo scientifico,visitando qualche camera mortuaria degli ospedali di Basilea e guardando gli effetti della morte sul corpo. Se vediamo da vicino alcuni aspetti del cadavere, certamente impressionanti, vediamo come il pittore si sia interessato a studiare la dislocazione delle macchie ipostatiche e alla loro colorazione nerastra dopo una decina di giorni dalla morte.

    

Hans Holbein il Giovane, Cristo nella Tomba

Guardiamo le macchie sui piedi anneriti e sulla mano; esse fanno più impressione della ferita sul costato e del foro slabbrato del chiodo sul dorso della mano. Allo stesso modo fa molta impressione il rigor  delle dita rattrappite, annerite e scheletriche della mano. Si diceva che il grande pittore greco Apelle, del quale purtroppo non possediamo pitture superstiti, dipingeva i cadaveri con solo tre colori. Allo stesso modo Holbein ne fa economia, il bianco dei lenzuoli, l'incarnato, le sfumature di grigio e di nero, le linee di seppia e bruno, un accenno di rossastro. Niente altro. I colori della morte sono pochi, freddi, impressionanti. Guardiamo lo sconvolgente volto del Cristo morto.

 

Il naso affilato e annerito con le narici aperte, la bocca con le labbra secche, aperta anch'essa a segnare l'ultimo estremo atto dell'agonia, come a voler inghiottire tutta l'aria possibile prima di spirare. E guardiamo questi impressionanti occhi senza vita ( se ne vede uno solo che esprime tutto lo strazio dell'attimo finale ); il bulbo bianco è afflosciato, la pupilla inanimata è sollevata, la palpebra gonfia. Chi guarda il lenzuolo della Sacra Sindone, al di là del fatto che possa o meno essere un volto dipinto o ritoccato di fattura medievale, non vede l'immagine di un cadavere come quello dipinto da Holbein, pur nella sua drammaticità, con i segni evidenti del martirio, vede il volto di un uomo più sereno, più disteso, con gli occhi chiusi.

Volto della Sacra Sindone, Torino


Di fronte a questo volto, che è pur sempre il volto di un uomo morto, di un cadavere, al di là del suo stato di reliquia, al di là del valore cultuale, è un volto che quasi spinge a credere nella possibilità successiva della Resurrezione, alla Redenzione degli uomini per il tramite del Sacrificio. Senza entrare nel merito del falso che la datazione al Radiocarbonio 14 ( sembra oggi in parte smentita da nuove analisi ) attesterebbe al Trecento, si potrebbe dire che è un'icona più convincente e meno straziante; non mette a tu per tu con il dramma dell'ineluttabile, della fine. Il dipinto di Holbein no. Nel sepolcro angusto e senza aria il cadavere in decomposizione non lascia margini, non induce a riflessioni positive. Dopo non c'è nulla. Il Cristo è morto. Dio è niccianamente morto. La raffigurazione realistica della passione era un  impegno dei pittori tedeschi  pre-riformisti eccitati dalla lettura di Erasmo; Grunewald è quello che meglio esprime questo crudo realismo. La crocefissione, alla quale pure Gibson deve essersi ispirato, è sicuramente quella più drammatica della storia dell'arte di tutti i tempi.

Matthias, Grunewald,Crocifissione di Cristo, 1512-16 olio su tavola,  Museé di Unterlinden, Colmar

Matthias Grunewald, Crocefissione di Cristo, particolare


Ha scritto Gombrich  che Grunewald, alla pari di un predicatore della Passione, non si è risparmiato nulla a livello descrittivo pur di rappresentare l'insieme degli orrori dell'agonia di Gesù Cristo. " il corpo moribondo del Cristo è deformato dalla tortura della croce;le spine dei flagelli penetrano nelle ferite suppuranti che ricoprono l'intera figura. Il sangue rosso  scuro contrasta nettamente con il verde smorto della carne. Cristo esprime il significato della sua sofferenza attraverso le fattezze ed il gesto commovente delle mani" ( H.Gombrich,St.Arte,1997,350-52 ).E proprio del gesto agonizzante delle mani si è ricordato Holbein quando ha realizzato il suo Cristo.


Grunewald, Crocefissione, particolare di una mano.


Holbein, Cristo nella tomba, La mano di Cristo


La tavola realizzata da Grunewald per l'altare dell'Ospizio di Isenheimer obbediva a precisi intenti teologici che la guida iconologica del pittore suggeriva con l'intento di mostrare agli ospiti del luogo quali tormenti infinitamente più grandi dei loro aveva dovuto subire Cristo, con la volontà di ispirare la pietà cristiana e nel contempo di portare ad una maggiore sopportazione dei loro tormenti quotidiani. La tavola di Holbein invece sembra rispondere più ad una esigenza personale del pittore, ad esprimere il proprio personale tormento interiore di cristiano. Nella realizzazione del dipinto Holbein non ha solo guardato a Grunewald, ma è possibile, non certo, che si sia è ispirato anche a Mantegna, al suo Cristo morto oggi all'Accademia di Brera a Milano. Un viaggio di Holbein in Lombardia intorno al 1518 sarebbe testimoniato dalla presenza di architetture lombarde, ad esempio nel Dittico con Cristo e la Vergine, del 1519 a Basilea nell'Offentliche Kunstsammenlung o di influenze foppiane e dello stesso Mantegna nell'Altare della Passione dell'Offentliche di Basilea, del 1520-24. Il viaggio non è certo e soprattutto non lo è la conoscenza del Cristo morto che  si trovava nella bottega del Maestro destinato probabilmente a suo culto privato e che venne in seguito acquisito da Sigismondo Gonzaga presso la cui collezione mantovana doveva trovarsi nel 1518 data del possibile viaggio di Holbein. Però il pittore doveva averne certamente una copia o stampa a bottega. Il Cristo morto ( o meglio il   Lamento sul Cristo Morto  ), con la sua suggestiva inquadratura" in scurto", presa dai piedi secondo un'evoluzione delle straordinarie visioni prospettiche dell'artista, già sperimentate a Palazzo Ducale, è soprattutto una scena di lamentatio , come mostrano le figure dei tre piangenti ( Maria, Giovanni, e sul fondo, in ombra, in atteggiamento disperante, la Maddalena )accanto al corpo morto, esprimendo così una immagine di  pietas secondo il modello italiano del Compianto . Il corpo non è solo , è vegliato e compianto, appena deposto dalla croce. Non è dunque nella tomba e nella sua cruda solitudine, anche se i segni del rigor mortis evidenziano un'attenzione del grande artista agli aspetti realistici della morte. Esisterebbe, però, un secondo Cristo morto nella stessa posizione e senza i dolenti, quindi senza compianto, nella sua tragica solitudine. L'ipotesi è ancora da verificare però una copia tardo cinquecentesca di Glenn Head, lo mostra proprio così. Che dunque vi fossero delle copie anche di questa possibile versione nella bottega di Holbein?

Cristo morto
Andrea Mantegna, Lamento sul Cristo morto, 1475-78 Pinacoteca di Brera, Milano
In ogni caso l'immagine poteva essere un importante esempio di studio nella visione prospettica audace e nella disposizione delle braccia ( semidistese ). Holbein cambia il punto di vista che diventa laterale ed estende ancor più le braccia che si adattano allo spazio ristretto della tomba. 

File:Copia del Cristo morto, Glen Head (New York), Collezione De Navarro.jpg
Glenn Head, Copia del Cristo morto del Mantegna, coll.De Navarro, New York 

Holbein conobbe bene Erasmo e L'elogio della follia e grazie a lui, quando fu stufo di dipingere per i committenti luterani e doverne in qualche modo subire una fede nella quale non credeva completamente, si recò a Londra e conobbe Tommaso Moro iniziando a lavorare per la corte inglese restando un cattolico erasmiano, nemico di ogni vanitas. A Londra realizzò il notissimo Gli ambasciatori, del 1533, conservato nella bellissima Sala C della National Gallery di Londra. Si tratta di un olio su tavola molto grande di oltre 2m di lato che mostra due ambasciatori francesi in un contesto figurativo dove domina la vanitas  ( lusso, cultura, ricchezza, opulenza ) se non che uno strano oggetto oblungo disturba la bellezza dell'insieme: si tratta di una anamorfosi, la più bella della storia dell'arte, un artificio prospettico che permette all'osservatore, che accortamente si sarà spostato di lato, di vedere in quella strana forma di siluro opalescente, la vera immagine:
un teschio alquanto impressionante: insomma, in ogni splendore, in ogni vanitas, si nasconde vigile e terribile, la morte in tutta il suo crudo realismo. Holbein quindi non si è allontanato dal Cristo morto nella lussuosa e comoda vita londinese di ritrattista di corte, ne ha ripreso la cruda presenza. Non c'è vera bellezza, come pensava il principe schizofrenico dell'Idiota , si può solo al più vederla in un'altra realtà, in un suo doppio, nella follia, di cui parlava l'amico di Holbein, Erasmo da Rotterdam, nell'Elogio

Hans Holbein il Giovane, Gli ambasciatori, 1533, National Gallery, London

File:Skull-Ambassadors.jpg
L'anamorfosi in alto svelata
Bibliografia:
Fedor Dostoevskij, L'idiota, Milano, Mondadori, 2004
Hans Werner Grohen, Hans Holbein il giovane, Milano, 1964
Roberto Salvini, L'opera completa di Hans Holbein il giovane, Milano, Rizzoli, 1971
M.Volvelle, La morte e l'occidente. Dal 1300 ai nostri giorni, Bari, 1983
E.Gombrich, La storia dell'arte, Milano, 1997, pp.350-357
Myers e Jeffery, Holbein and Idiot, 1975.
wikipedia, holbein, cristo nella tomba e tutte le immagini.





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