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martedì 22 gennaio 2013

La cacciatrice di teste


Gustav Klimt, Giuditta I, 1901, Osterreichische Galerie, Wien.

Giuditta II, Galleria d'arte internazionale di Ca' Pesaro, Venezia.

" Leggendo il libro di Giuditta invidiavo il feroce eroe Oloferne per via della donna regale che lo decapitò con una spada, invidiavo quella  bella fine sanguinaria». Leopold von Sacher-Masoch,
Venere in Pelliccia ( 1870 ).  


Gustav Klimt, Giuditta I, 1901, Osterreichische Galerie, Wien
Quando Gustav Klimt, nel 1901, dipinge la sua prima Giuditta ( nota come Giuditta I ), non ha tanto interesse al nobile intento dell'eroina che a Betulia uccide il tiranno Oloferne tagliandoli la testa con un colpo di spada, quanto al tema della donna sanguinaria, intrisa di erotismo e crudeltà. E per questo, l'ossessione che il personaggio di Severin manifesta nel romanzo di Leopold von Sacher-Masoch, Venere in pelliccia, del 1870, è la stessa ossessione che attanaglia il pittore austriaco. Quella della donna cacciatrice di teste, come scrive nel suo Art-Dossier su Klimt e le donne, del 2000, Eva di Stefano. Nel dipinto la storia di Giuditta è stravolta, al pittore non interessa la scena, la spada, la decapitazione : vediamo la testa del generale assiro a destra, scura, quasi schiacciata fuori della cornice dalla mano della donna sui capelli neri; tutto il resto dello spazio pittorico appartiene alla figura di Giuditta in mezza figura. Qui non conta il dopo o il prima della decollazione, conta invece l'adesso, la donna, la sua realtà che domina il quadro. Secondo il racconto biblico Giuditta, per salvare la città di Betulia dalla minaccia dell'accerchiamento da parte dei babilonese all'epoca del re Nabucodonosor, si reca nottetempo all'accampamento dal generale assiro Oloferne che, avvinto dalla sua bellezza, la invita al suo banchetto nella tenda, sperando di farla sua. Vinto dall'alcol il generale si addormenta e Giuditta, con una spada gli recide il capo. Nella visione cristiana Giuditta è un'eroina virtuosa e coraggiosa ed anche una prefigurazione di Maria Vergine. Caravaggio, nel dipinto della Galleria d'Arte Antica di Palazzo Barberini a Roma, nel 1599, l'anno della decollazione della parricida Beatrice Cenci davanti a Castel S. Angelo, alla quale il pittore aveva assistito con altri pittori. La scena mostra Giuditta giovane e leggermente inorridita dal suo stesso gesto, accanto ad una serva leonardesca, rugosa con in mano il drappo che dovrà ricevere la testa di Oloferne che l'eroina ha già spiccato dal collo del generale assiro facendo schizzare un fiotto di sangue sulle bianche lenzuola.

Giuditta e Oloferne
Caravaggio, Giuditta e Oloferne,1599, Galleria di Palazzo Barberini, Roma
La scena ha un carattere teatrale, con una luce centrale che esalta le carni e le espressioni e la tenda rossa che chiude il fondo come nella Morte della Vergine. Ma la scena forse più drammatica è quella dipinta da Artemisia Gentileschi, figlia geniale dell'amico di Caravaggio, Orazio Gentileschi. Artemisia mette in scena il momento del taglio della testa sul letto dove è addormentato Oloferne con una rappresentazione molto cruda della violenza. Qui l'eroina non ha vesti di vedova o di fanciulla, ma un abito azzurro di festa che evidenzia un elemento di seduzione, il seno morbido e carnoso esaltato dalla luce e dall'ombra che vi si insinua. Giuditta sa che per portare a termine il suo progetto, alla festa deve saper sedurre il generale, portarlo nella tenda, lasciare che si ubriachi e si addormenti, solo allora, con l'aiuto della giovane ancella potrà ucciderlo tagliandogli la testa con la scimitarra. La critica, con un tantino di forzatura, ha voluto vedere nel sangue schizzato, nella violenza manifestata, persino nel volto stesso del generale, il ricordo dello stupro che la pittrice, sedicenne, subì dal pittore Agostino Tassi, poi denunciato e processato. 

Giuditta che decapita Oloferne
Artemisia Gentileschi, Giuditta e Oloferne, c. 1628-30, Museo di Capodimonte, Napoli
In questo dipinto, dunque, viene messa in risalto la femminilità e la determinazione di Giuditta ed anche l'elemento della violenza che si è voluta leggere come di stupro, ma anche di castrazione. Artemisia, in pratica, avrebbe rappresentato, in un solo momento, una situazione subita e una situazione auspicata, voluta anche involontariamente, quella di poter castrare con la stessa arma, chi le aveva usato violenza. Per Klimt il discorso è diverso. Dentro una cornice scabra e dorata, realizzata dal cugino falegname, il pittore realizza un olio con inserti d'oro che ha la funzione di evidenziare il potere seduttivo e distruttivo di Giuditta che è capace di neutralizzare la forza virile del suo amante. Klimt, innanzitutto, guarda a Bisanzio dorata, non diversamente da Moreau che dipinge la sua Salomè, un'altra decapitatrice famosa. Sono gli anni in cui Richard Strauss ricava dalla Salomé di Oscar Wilde, un'opera lirica in un atto su libretto di Edwig Lanchmann. Va in scena con successo nel 1903 alla Semperoper di Dresda. Dopo la danza dei sette veli, alla presenza di re Erode che ha promesso alla figliastra di esaudire qualsiasi suo desiderio, Salomè chiede che le venga portata su un vassoio d'argento la testa di Yoakann, S. Giovanni Battista, considerato da alcuni come il Messia, il Profeta. Dopo un vano tentativo di dissuasione Erode acconsente e fa portare a Salomè la testa di Giovanni, allora Salomè si avvicina e con orrore degli astanti e del re, bacia sulle labbra la bocca da cui esce un fiotto di sangue. Erode, inorridito da tanta morbosa audacia, fa uccidere Salomè. Moreau nel suo dipinto del 1876, al Museo Gustave Moreau, dipinge un' affascinante Salomè avvolta nelle sottili trasparenze del velo e inserita entro lo spazio d' ombra e oro del Palazzo di Erode, dove appaiono come fantasmi, lemuri e idoli trasparenti.

File:Gustave Moreau Salomé 1876.jpg
Gustave Moreau, Salomè, 1871 Musée Moreau, Paris
Sono gli anni della femme fatale , della donna divoratrice, sensuale, nuda, bellissima, odorante di aromi orientali e di sperma. La figura di Salomé in questo senso è significativa, è la donna tagliatrice di teste che esprime in modo inesorabile il binomio classico di Eros e Thanathos, Amore e Morte. Franz von Stuck, nel 1906 dipinge la sua Salomè non propriamente come un'eroina biblica, ma come il prototipo romantico della donna-diavolo, della Carmen di Bizet, della gitana orientalizzata che fa la danza del ventre e quella sei sette veli, intrisa di penetranti aromi orientali, immersa nel buio di una notte siriana o babilonese, dove la testa di Yohannah è portata su di un vassoio che emana luce a raggi azzurrini, da uno schiavo negro.

Franz von Stuck, Salomé, 1906,Stadtiscke Galerie Laubuchihaus,Munich
Alessandro Dumas padre, nel 1844, parlando dell'attrazione che Dartagnan provava per Milady, metteva già in chiara evidenza come la figura della femme fatale si caratterizzava per il suo forte, coinvolgente potere di seduzione che ha in sé qualcosa di non comune, di perverso e satanico: " Quella donna esercitava un potere incredibile su di lui. La odiava e la adorava nel medesimo tempo, generando un amore strano e in qualche modo diabolico" L' uomo, pur nel suo saggio equilibrio, ne resta inevitabilmente soggiogato, ne resta intrappolato, trascinato in una passione insana che non lascia speranze di quiete, ma invece agita i sogni, porta alla perversione, alla morte. Questa passione perversa per la donna-diavolo, pitonessa, vampiro, medusa, si riscontra in molta letteratura occidentale ed è incarnata soprattutto dalla figura archetipica di Lulu della femme fatale,tardo romantica e decadente, ricavata da due opere di Wedekind, Lo spirito della terra (1895 ) e Il vaso di pandora ( 1904 ). Qui Lulu, unisce in sé due caratteristiche irresistibili per l'immaginario femminile del tempo: una apparente irresistibile ingenuità e una perversa, naturale, lussuria ( puella e meretrix ). A diffondere la figura-mito di Lulu, sarà soprattutto l'attrice Lanise Brooks, nel film muto Il Vaso di Pandora di Pabts, del 1928. Qui Lulu, con i suoi capelli neri a caschetto, il trucco vistoso, i grandi occhi espressivi, con le sue movenze da ballerina-rettile, il suo sguardo magnetico, rende animata, viva, la figura della femme fatale. Ma per meglio comprendere l'origine di questa figura-mito che sta dietro la Giuditta di Klimt, dobbiamo rifarci a due personaggi mitici che, entrambi, concorrono a formarla: la Maga Circe e Medusa, il corpo che seduce e lo sguardo assassino. Circe era una bellissima maga ( in verità, almeno sino al V secolo, Circe è solo una dea ) figlia di Helios e della ninfa oceanide Perseide, che aveva ricevuto il dono di poter trasformare in animali gli uomini. Circe è dominatrice degli animali e signora di essi; gode nel vedere gli uomini abbassati al suo dominio dopo averli attirati a sé con il suo fascino naturale disarmante che finisce per irretire anche l'eroe maschio per eccellenza, Ulisse che cade, anch'esso nelle spire della maga incantatrice, ma che si salva dalla immediata metamorfosi, evitando di cadere nel dominio della maga, solo grazie all'intervento del dio Ermes. Una vera e propria"sindrome di Circe" può ravvisarsi nelle signore dell'alta società borghese decadente che entrano nell'immaginario collettivo e si mostrano in quello figurativo mitico dei pittori; nella sua dimensione mitica, come dea-signora assisa sul trono mentre riceve Ulisse pronta per sedurla, è rappresentata nell'ambito della pittura simbolista e preraffaellita, da Waterhouse, in un dipinto del 1891.

File:Circe Offering the Cup to Odysseus.jpg
J.W.Waterhouse,Circe offre la coppa ad Odisseo,1891, Odhaen Art Gallery, Oadten, Gran Bretagna.

Il trono con le protomi animalesche, il cinghiale ai suoi piedi, la veste grigia sottile che nasconde appena la nudità della dea, sono elementi simbolici che ne caratterizzano il personaggio, mentre lo specchio circolare alle spalle è un simbolo proprio della seduzione e ha la funzione di riflettere l'immagine di Ulisse che è di fronte a lei e che sta per cadere nella trappola del fascino della maga. Di fronte alla donna-circe l'uomo ha un atteggiamento ambivalente, di attrazione e di repulsione allo stesso tempo; si trova soggiogato, ma ha paura e la paura principe, in assoluto, è la paura della castrazione, della vagina dentata. E' l'uscita della donna dalla dimensione più strettamente materna e riproduttiva, dalla visione domestica e tranquillizzante della moglie fedele, per mostrare il suo lato più inquietante, quello dell'eros devastante, della sovrabbondanza del sesso su tutto. Questo timore ancestrale, questa debolezza della psiche che si evidenzia come una repressione del desiderio e degli impulsi, nasce in epoca protostorica, nel mito della Grande Madre divoratrice che inghiotte la stessa virilità dell'uomo che ne viene mortificata, cancellata, annullata. E Circe è proprio la Grande Madre che governa l'uomo come gli animali e che trasforma gli uomini in animali per sottometterli a lei. Come Circe anche Medusa è un altro simbolo ricavato dalla mitologia del potere di seduzione femminile. Secondo Ovidio, L.I delle Metamorfosi, Medusa era una giovane bellissima, figlia di Forco e Ceto, una delle gorgoni con Steno ed Euriale. L'unica a non essere immortale. Atena per punirla per aver osato paragonare la sua bellezza a quella della dea e per averla sorpresa ad amoreggiare nel suo tempio con Poseidone, la trasformò in un terribile mostro dalla testa di serpenti, che aveva uno sguardo in grado di pietrificare all'istante chiunque la guardasse negli occhi attratto e respinto al tempo stesso dai suoi occhi magnetici e terrorizzanti. Solo un eroe avrebbe potuto vincerla. E fu così che Perseo, deciso ad ucciderla, evitò lo sguardo fissando l'immagine riflessa nello scudo, riuscendo in questo modo a decollarla con un colpo di spada, liberando così gli uomini dall'incubo della sua presenza. Medusa è un'altra immagine-mito dell'età decadente, una figura della femme fatale che troverà poi largo spazio nel cinema e nelle icone della trasgressione femminile, nelle donne vampiro ( da cui il termine derivato di vamp ), come Theda Bara, Greta Garbo, Marlen Dietrich che incaranano donne che attraggono e che distruggono, che agiscono per se stesse, per il gusto di agire, di imporre la propria autorità sul maschio tramite il proprio fascino, come fa Marlen nell'Angelo Azzurro di Stronheim, del 1930 nei confronti del professor Unrat, rispettabile maschio e rispettato insegnante che cade in rovina e viene preso in giro dai suoi studenti che lo deridono per il ridicolo amore per la giovane e affascinante Lola Lola. Questa immagine di donna-medusa che secondo la lettura di Freud, 1922, sviluppa nella psiche dell'uomo il terrore ancestrale della castrazione ( l'icona è quella di una testa mozzata, di una decapitazione e dunque, per estensione anche di evirazione, di distacco violento, un aspetto simbolico rafforzato dalla presenza del serpente-fallo che nella testa di Medusa è moltiplicato )  trova nella raffigurazione inquietante di Bocklin, l'icona ideale dell'incubo della femme fatale

Arnold Bocklin, Medusa, 1878. Collocazione ignota


Quello che dell'immagine colpisce è la bocca aperta e gli occhi immobili, freddi, paralizzanti, non completamente spalancati. Non è un volto aggressivo, la donna-medusa non sembra svolgere un ruolo attivo, come ad esempio la donna vampiro nella terribile immagine di Munch,del 1894, in cui i capelli rossi che scivolano sulla testa della vittima, sono il simbolo del sangue succhiato, della voglia insaziabile della Vamp distruttrice. Qui Medusa ha un carattere quasi angoscioso che comunica più morte che seduzione. Lo sguardo pietrificatore, la bocca socchiusa, il volto allucinato che emerge prepotente dal fondo nero, le serpi che restano in basso, inattive, dominate ( il serpente è un simbolo fallico per eccellenza ), hanno nel dipinto di  

Franz von Stuck, Medusa, Galleria di Arte Moderna di Cà Pesaro, Venezia
Franz von Stuck, una delle immagini più impressionanti della Medusa, qui più attiva, più ipnotizzante e seduttiva, di una seduzione feroce e distruttiva. L'artista riprende la suggestione mitologica di Bocklin e la rende più coinvolgente, più magnetica. La donna è qui immagine di un'ossessione, della corruzione dell'animo e della degenerazione dell'uomo vittima che è spinto a commettere peccato. Un tema che infatti, più tardi, verrà ripreso in un'altra opera da von Stuck, Il peccato, in cui la femme fatale è Eva, la prima donna, ad un tempo seduttrice del maschio, Adamo, e sedotta dal serpente, dal demonio, che la circonda, entra in lei, si impossessa della sua anima e  del suo corpo, fissa verso lo spettatore come fissa Eva, con i suoi stessi occhi diabolici. Un'analogia figurativa straordinaria che viene dall'antica associazione fra la donna e il serpente,   che è, allo stesso tempo, rapporto fra il femminile e il demoniaco e fra la donna e l'eros ( serpe-fallo ) che produce attrazione e negazione, timore e tentazione.


Ritter Von Stuck - Il peccato
Franz von Stuck, Il peccato,Galleria d'Arte Moderna, Palermo 
che è, allo stesso tempo, rapporto fra il femminile e il demoniaco e fra la donna e l'eros ( serpe-fallo ) che produce attrazione e negazione, timore e tentazione. Dunque, di fronte a questa schiera di donne-divoratrici, di donne-vampiro, di donne-serpente, incantatrici e maliarde che popolano tutta la cultura letteraria e figurativa fin de siècle , la presenza del maschile virile, eroico e dominatore, sul femminile inferiore e soccombente imperante nei secoli passati sembra essere travolto e stravolto; la donna appare come un incubo nella doppia valenza di attrazione-repulsione e, come afferma Eva di Stefano, non è sufficiente la paura ancestrale della castrazione studiata da Freud , l'uomo resta con un'immagine fissa nella sua mente, come un'ossessione incancellabile come mostra Edward Munch, nella litografia del 1897, Nel cervello dell'uomo, dove sopra la testa, nella profondità della psiche, si erge una donna nuda. Nell'immaginario simbolico della cultura tardo ottocentesca si scontrano due aspetti : da una parte la figura protettiva del grembo materno, della vagina come ingresso alla continuità della specie, come mezzo della riproduzione e dall'altra la "vagina dentata" , che è luogo di opposizione e distruzione della virilità, di evirazione. Fra i due poli opposti vige il desiderio, il piacere, la liberazione dai vincoli delle convenzioni moralistiche cristiane, il desiderio del sesso come strumento di liberazione.

                Questi aspetti radicati nella mentalità di fine ottocento, assorbiti dalla cultura letteraria e figurativa trovano interesse e spazio in quei pittori che sono alla ricerca di un'espressione nuova, al di fuori degli accademismi e dalle tradizioni, dalle oleografie commerciali richieste dalla grassa borghesia e dalla decadente e immorale nobiltà. Proprio i pittori secessionisti viennesi, che hanno come capofila Gustav Klimt, cercano stimoli diversi nell'universo femminile, nell'eros, nella mitologia rivisitata attraverso la lettura di Freud e Yung. E' nello stimolo alle novità, nella creazione di un'arte autonoma, di un'arte per l'arte, di una pittura che sia sinfonia di colori, che sappia parlare all'animo umano come una sinfonia musicale, che sappia rivelare gli aspetti nascosti e misteriosi del mondo, gli impulsi e le angosce dell'animo tormentato, della psiche alterata. Eva di Stefano ha precisato che la scelta della figura di Giuditta, piuttosto che quella di Salomè nasce dal fatto che" l'artista vuole con ogni evidenza celebrare la donna compiuta, e non l'adolescente davanti a cui il potere del re abdica e si concede: Giuditta infatti è essa stessa il potere, colei che non chiede ma decide, colei che compie con le sue mani quel delitto che la danzatrice agisce per procura, e forse con incosciente cinismo, solo per conto della madre. Senza equivoci, Giuditta è regina del proprio desiderio"( Art e Dossier,2000,16 ) . Giuditta I è l'icona delle scelte del Sezessionstil , del "periodo aureo" di Klimt, del rinnovamento dello stile, di un'arte risolta in sé, di un'armonia di colori,riflessi,ombre,simboli, di una magia che nasce dalla materia e si trasmette come emozione. Il dipinto non ha profondità, si sviluppa tutto in due piani, orizzontale e verticale, è una lastra dorata con macchie di colore, segnala la sua ascendenza bizantina. Il volto di Giuditta è quello di una donna appagata, come se la decapitazione fosse stata un orgasmo pienamente riuscito. Gli occhi socchiusi e la bocca semiaperta esprimono più che semplice soddisfazione, un pieno appagamento, sia dell'eros che del potere che essa stessa sa procurarsi. La morte del maschio seduttore, la sua castrazione, la sua riduzione all'impotenza assoluta si mostra nella testa tagliata, schiacciata in uno spazio ristretto dalla mano artigliata che non sembra nemmeno reggere per i capelli il capo del generale siriano, ma sembra invece allontanarlo dallo spazio luminoso e potente che Giuditta si prende dominando con il suo sguardo languido e seduttivo; ricacciandolo nella sua ombra, negli incubi della sua psiche alterata dall'eros. Oloferne è come quelle teste staccate e imbalsamate usate come trofei. I suoi occhi che hanno visto tutto l'oro della donna, tutto il bianco della sua carne nuda, sono chiusi per sempre alla vita. Se guardiamo bene il dipinto, la parte superiore del corpo, quella che riguarda la testa di Giuditta, notiamo come questa è staccata dal resto del corpo da un incastonato di pietre dure. In un certo qual modo, dunque, anche Giuditta è decollata; la sua testa che esprime il piacere appagato, simboleggia la vendetta e l'affermazione di sé sul maschio depotenziato, decapitato del suo potere e castrato.
Gustav Klimt, Giuditta I, particolare
Alle spalle di Giuditta si staglia un paesaggio stilizzato in oro, con alberi, montagne e vigne che riproduce con tecnica raffinata un antico bassorilievo assiro del Palazzo di Sennachenib a Ninive, che l'artista aveva potuto ricopiare e riproporre figurativamente come fondale del dipinto. In questo modo la visione che suscita l'immagine di Giuditta si distacca dall'immaginario di un passato remoto che la determina, la rende riconoscibile e la funzionalizza in quanto personaggio di una storia. Un fondale di luce dorata che si sprigiona dagli antri più scuri, più nascosti, che evoca la presenza nascosta dell'oro, del metallo prezioso come energia cosmica, che si sprigiona dal ventre della terra-madre. Gli studiosi hanno individuato, quale modello formale del dipinto, un gesso dipinto del pittore simbolista belga Khnopff presentato alla II mostra della Secessione viennese nel 1898 che mostra la maga Viviana che seduce il mago Merlino. I punti di contatto non sono pochi, dallo sviluppo della figura in verticale, al taglio al mezzo busto, all'accostamento della statua al fondale dorato, alla veste slacciata che mostra una parte della nudità della maga, con i seni in evidenza. La scelta della figura a mezzo busto che mostra la sua carnale nudità nella posa centrale e ravvicinata, come ha suggerito la di Stefano ha la funzione" di avvicinare la figura come se il punto di vista fosse quello del partner sessuale", per cui lo spettatore che guarda l'immagine si trova nella stessa posizione del seduttore o, meglio, di chi viene sedotto. E' una soluzione che utilizzano tanto von Stuck con la sua Eva de Il peccato , quanto Munch, con la Madonna . Ma se nella Madonna orgiastica dall'aureola rossa ( nella prima versione del 1894 l'immagine era racchiusa in una cornice rossa con spermatozoi che si muovevano verso un feto ) la nudità è esibita ed offerta come mostra la posa con le mani dietro la schiena che spingono il corpo nudo in avanti e con altri segni chiari della piena disponibilità all'eros , quali i capelli sciolti, i seni turgidi, gli occhi chiusi, le labbra socchiuse e morbide, la dissacrante aureola rossa come la passione che incendia il dipinto che indica la " santità erotica " e, come sottolineato da più studiosi rappresenta una provocazione contro l'imperante puritanesimo scandinavo dell'epoca, la Giuditta I evidenzia, nella posa, una negazione della nudità, come mostra il braccio posto in orizzontale all'altezza del bacino poco sopra l'ombelico, teso come una sbarra e che termina con la mano che artiglia per i capelli la testa di Oloferne, ad indicare un piacere proprio derivato dalla castrazione del seduttore, dalla sua morte.


Ma anche qui, in questa complessa icona del binomio di eros e thanatos, vi è un atteggiamento di protesta, di chiusura di fronte all'imperante falso perbenismo dell'ufficialità borghese della Vienna di fine secolo e il libero privato sfrenarsi dei sensi, tipico di una società in crisi e in dissoluzione, che castra se stessa. Il pittore non aveva appunto dimenticato di inserire qualche traccia del tempo, un segnale iconico che riportasse l'immagine al presente. Ed infatti, se guardiamo il collare d'oro incastonato di pietre preziose, non possiamo non considerare, al di là di ogni aspetto simbolico, che si tratta di un oggetto proprio dell'eleganza viennese di quel periodo, un collare che le signore, tutte vizi privati e pubbliche virtù, esibivano nei salotti bene di Vienna.
E la modella che appare nel dipinto doveva essere certo conosciuta dagli amici secessionisti del pittore e da gran parte del bel mondo che era presente alla prima esposizione dell'opera. Certamente doveva trattarsi di Adele Bloc Bauer, esponente dell'alta società viennese, donna sembra bellissima, ricca, assidua frequentatrice di salotti letterari, circoli artistici e mostre d'arte che il pittore aveva più volte ritratto nel suo studio a Vienna, una specie di gineceo, esclusivamente popolato di modelle libere e disponibili.


Gustav Klimt, Giuditta, 1894
                 Nel 1909 Klimt, a distanza di otto anni dalla Giuditta I , torna sul tema di Giuditta ( ancora di Giuditta e non, come alcuni credono, di Salomè ), con un nuovo dipinto, Giuditta II , che, rispetto al primo, si sviluppa maggiormente in verticale e quindi comprendendo la quasi intera figura della donna che evidenzia un decorativismo più complesso nella ricchezza dei colori e nei motivi geometrici. La rinuncia al dorato metallico, dopo il " periodo aureo" , lascia spazio ad una ricca varietà di cromatismi che si sviluppano lungo tutta la superficie, dal basso in alto. Klimt rinuncia alla frontalità e alla mezza figura, il punto di vista, qui, non è centralizzato sulla nudità frontale, sugli occhi languidi, sul seno che fuoriesce dalla veste trasparente e indorata, sull'ombelico disposto poco sotto l'occhio della testa del morto, ma è spostato alla posa sfuggente di Giuditta, che si pone di profilo, con la testa leggermente spostata in avanti. Anche qui il corpo è posto su di uno sfondo piatto, di un colore marroncino chiaro sul quale si sviluppano motivi geometrici, quali cerchi concentrici o spiraliformi, mentre dietro la massa dei capelli nero petrolio si staglia un mosaico, per così dire, di tessere variamente colorate che esaltano un decorativismo molto manierato. Se si guarda al collo, vediamo anche qui qualcosa che lo separa dal busto, ma non si tratta di un collare, bensì di una specie di stola che fuoriesce sulla spalla con una decorazione a cerchi e a figure geometriche scure poste nel mezzo che richiamano in qualche modo le pietre dure e preziose dell'altro collare, ma che qui sono risolti nella bidimensionalità della stoffa decorata. Il busto nudo ha un incarnato più rosato, mostra entrambi i seni, ma è meno sensuale di quello della prima Giuditta. Il cerchietto del capezzolo è realizzato in rapporto alla decorazione a cerchi che domina il fondo del dipinto. Un fondo neutro, dove ogni richiamo a figure che indichino un luogo, che richiamino il passato, è scomparso. Tutto è risolto qui con una serie di contrazioni , ondulazione di linee e di moltiplicazione di cerchi-occhi che sono rivolti a chi guarda. La gonna di Giuditta riprende, in basso, il decorativismo espresso in alto, richiamando le tesserine colorate sotto forma di stretti campi geometrici di colore allungati o allargati.


Gustav Klimt, Giuditta II, 1909, Galleria d'Arte Contemporanea di Ca'Pesaro, Venezia

In questa visionarietà policromatica la nuova Giuditta si mostra appena uscita da un'orgia, piena di orrore e ribrezzo, dopo aver compiuto non solo un esasperato eros eccitata come un'animalesca baccante, ma anche un atto risolutivo, decisivo. Con la stessa furia dei baccanali ella è stata bestia in calore e divoratrice degli uomini che si sono accoppiati con lei: la testa del generale assiro, qui più chiara, è ancor più artigliata da dita d'aquila che la tengono per i capelli, la loro contrazione esprime, insieme a quella del volto tagliente come una lama, la crudele freddezza dell'assassina. Non più, dunque, la donna sensuale e seduttrice, bensì la donna baccante, orgiastica e omicida.  Klimt si era già interessato alle concezioni sullo spirito dionisiaco espresse da Nietzsche nel 1872, ne La nascita della tragedia, ma qui esse vengono esasperate rispetto a ciò che poteva interessarlo nel momento della prima Giuditta. Nel 1897 aveva dipinto anche lui una sua idea della Tragodia, della tragedia, personificandola in una baccante vestita di nero, ma riccamente ingioiellata con due grandi orecchini d'oro e un prezioso alto collare, con uno sguardo funereo e assassino, che tiene fra le mani una maschera tragica: se si guarda la mano destra che tiene la maschera, vediamo come essa abbia la stessa aggressività che mostra la mano artigliata che tiene la testa di Oloferne in Giuditta II. C'è una premessa, dunque, alla tragedia dell'assassinio da parte dell'invasata Giuditta, la premessa del tragico dionisiaco che in  altri campi stavano mettendo in opera Strauss con Salomè e Hugo von Hofmansthal , con Elektra , due eroine che pongono in chiara evidenza proprio questa possessione del funereo, del lutto, vissuto, sebbene in modalità diverse, attraversa la danza orgiastica, attraverso la vendetta.

Tragödie 1897
Gustav Klimt, Tragoedie, 1897,Historisches Museum, Wien


C'è una premessa figurativa alla tragedia dell'assassinio da parte dell'invasata Giuditta, quella del tragico dionisiaco, che in teatro, riprendendo le suggestioni di Nietzsche, stavano mettendo in opera Richard Strauss con la Salomè in prima nel 1905 a Dresda, con la grandiosa regia di Max Rehinardt e Hugo von Hofmansthal con Elektra , in scena nel 1903 al Klieis theather di Berlino, dedicata ad Eleonora Duse ( l'autore scrisse per la"Divina" una versione bellissima in francese che doveva essere realizzata con la scenografia, i costumi e la regia di Gordon Craig, che esaltano al massimo proprio il simbolismo e il decorativismo ) , che però non ne fu mai interprete, ed adattata per Strauss nel 1909. Due eroine-baccanti, animalesche, due danzatrici orgiastiche ( straordinaria la danza finale di Elektra ) che pongono in chiara evidenza, sia pure in modalità e situazioni diverse, come la possessione erotica sia anche possessione del funereo, della morte, dell'istinto primitivo della vendetta. Commentando la Salomè di Gustav Moreau, ma il riferimento può valere anche per Klimt, lo scrittore decadente francese George Huysmans, autore di quel A' Rebours , in cui la sconfitta dell'eroe borghese può essere sublimata solo racchiudendosi nell'estetismo,unica via d'uscita, scriverà: " l'inquietante frenesia della danzatrice, la raffinata grandezza dell'assassina, simbolo divinizzato dell'insopprimibile lussuria, la dea dell'immortale isteria"; questa è Salomè, ma anche Giuditta appena uscita dall'orgia omicida tenendo nei suoi artigli di animale in calore, la testa ( come uno scalpo ) del generale assiro, seduttore sedotto e castrato, Oloferne. 

Bibliografia:

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S.Zuffi, L'amore e l'erotico in arte, 2010
www.ikonos.it Metamorfosi di Ovidio
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