Translate

domenica 8 dicembre 2013

Il Matteo perduto



                 La prima versione del S. Matteo e l'Angelo

           " Il pubblico è di una tolleranza meravigliosa, perdona tutto tranne il genio" Oscar Wilde.

La prima versione di San Matteo e l'Angelo
Caravaggio, S. Matteo e l'Angelo, 1602


          Racconta Peter Robb in M ( come il regista Darmak Jarmal col suo Caravaggio, ha dato una lettura molto originale della vita e dell'opera di Caravaggio ) , che le molte persone che erano accorse nella sera del 1600 nella chiesa di S. Luigi de'Francesi per assistere allo svelamento, alla luce delle torce, nella Cappella Contarelli, delle due tele sulla vita di S. Matteo del già noto pittore lombardo, erano probabilmente fin troppo stupite ed invidiose per accorgersi che al centro della cappella, sopra l'altare, lo spazio era desolatamente vuoto ( Robb, M, 188 ). Ed in effetti era sin troppo sconvolgente l'apparizione delle due storie sulle pareti laterali per non attirare solo lì lo sguardo emozionato dei presenti poco o nulla abituati a vedere nelle cappelle romane dipinti su tela e a vedere poi quelle gigantesche realizzate con  la statica ma eloquente Vocazione di S. Matteo e il molto dinamico e drammatico Martirio di S. Matteo.

Martirio di San Matteo
Caravaggio,Martirio di S. Matteo,1600, 
La vocazione di San Matteo
Caravaggio,Vocazione di S. Matteo, 1600

Caravaggio aveva isolato due fotogrammi di un film che procedeva a sbalzi e convulso raccontando i due momenti più significativi della vita del Santo. Ma di fatto il vuoto, anche se i presenti erano distratti, restava e dovette restare ancora per molto, almeno altri due anni in attesa che Caravaggio realizzasse la pala d'altare a seguito di fatti non dipendenti dalla sua volontà che avevano di molto allungato i tempi dell'attesa. A pensare ad una decorazione della propria cappella che gli era stata assegnata era stato il datario di papa Gregorio XIII Mathieu Cointrel (italianizzato in Matteo Contarelli  ), che si era proposto di decorare lo spazio nudo e vuoto con una decorazione che esaltasse le gesta del santo a cui era devoto. I lavori erano stati assegnati dapprima al bresciano Gerolamo Muziano che avrebbe dovuto fare il soffitto, gli affreschi laterali e una pala d'altare ad olio al centro. Il datario però non poté veder realizzato il suo sogno perché poco dopo morì, lasciando come suo esecutore testamentario il rettore Virgilio Crescenzi. Quest'uomo non era propriamente uno stinco di santo, anzi era quello che oggi possiamo dire un maneggione, una persona sostanzialmente corrotta, come non ve ne erano poche a quel tempo nella Corte papale. Virgilio, dunque, morto Mathieu, lasciò cadere i rapporti col Muziano e affidò i lavori all'artista più ammirato, costoso e ricercato di Roma, il cavalier d'Arpino. Il pittore, nella cui bottega era transitato anche il giovane Caravaggio fra 93 e 94 a fare nature morte e quadri di "fruttaroli", cioè giovani che portavano canestri di frutta o esibivano frutti e fiori, era pieno zeppo di lavori da fare a destra e a manca, a marchesi, conti, cardinali, in quella o quell'altra chiesa o palazzo, che non aveva tempo e lavoranti sufficienti per la Cappella, comunque riuscì a terminare gli affreschi del soffitto, mentre si prese altro tempo per gli affreschi delle pareti di lato. Il contratto col D'Arpino non prevedeva però la pala d'altare; il Crescenzi, abbandonata l'idea, aveva pensato invece ad un poderoso gruppo scultoreo e l'aveva incautamente affidato allo scultore fiammingo Jakob Cobaert, ottimo artigiano, per carità, ma non un'artista. capace al più di gessi, bronzi, piccole sculture in marmo devozionali e di oggetti liturgici, ma non certo di un gruppo scultoreo dalla complessa iconografia come voleva il Crescenzi. Era inoltre malato e piuttosto anziano, vicino agli 80 anni, tuttavia non gli mancava l'arroganza e l'immodestia; eccitato all'idea di rivaleggiare col ricchissimo e notissimo Cavaliere, chiese un compenso spropositato, ma non si rese conto delle effettive difficoltà. Intanto il Crescenzi era incappato in un incidente di percorso che ci fa capire come a Roma, in fatto di ruberie, non sia cambiato nulla dal Cinquecento in qua: una circostanziata denuncia presentata direttamente al papa lo accusava di essersi servito dell'ingente eredità del Contarelli per favorire l'ascesa del proprio figlio abate, Giacomo. Il durissimo e triste nuovo papa Clemente VIII, che soffriva di crisi isteriche, tolse immediatamente l'incarico dalle mani del Crescenzi e lasciò tutto nella mani del cardinal Del Monte, sovrintendente, diremmo oggi alle Belle Arti e a capo della Fabbrica di S. Pietro, nonché protettore di Caravaggio che da giovane aveva lavorato nel suo palazzo. Il Del Monte risolse i problemi di committenza a suo vantaggio favorendo Caravaggio che venne indotto a firmare un contratto col Crescenzi. Al D'Arpino si fece credere che la realizzazione di affreschi avrebbe comportato l'erezione di impalcature che avrebbero paralizzato le funzioni liturgiche e che era più semplice realizzare delle tele ad olio. D'Arpino si ritirò di buon ordine e Caravaggio iniziò a lavorare il 23 luglio del 1593, consegnando però le tele in largo ritardo sul previsto.  Alla scultura intanto lavorava anche il buon Cobaert ( detto Coba ), ma andava arrovellandosi il cervello senza cavare un ragno da un buco perché il lavoro era duro e difficile e lui non era assolutamente all'altezza. Tuttavia Coba, con un ritardo di ben due anni, si diceva oramai pronto a consegnare l'opera. Il gruppo scultoreo fu portato alla chiesa, ma era tanto sgraziato, goffo e insignificante che il Crescenzi fu costretto ad impedire che venisse montato sull'altare e lo fece portare a casa sua per sistemarlo ai piedi dello scalone del suo palazzo. Chi volesse vedere l'obbrobrio, la scultura più brutta di Roma, può andare alla SS. Trinità dei Pellegrini, dove il gruppo scultoreo è sistemato sull'altare di S. Matteo.


Jacob Cobaert, San Matteo e l'angelo, SS. Trinità dei Pellegrini
Jakob Cobaert, S. Matteo e l'Angelo, 1602, SS. Trinità dei Pellegrini, Roma



Il 7 febbraio del 1602, vista l'impossibilità di sistemare la statua orribile del Cobaert, l'incarico fu dato a Caravaggio con preghiera di consegna per il giorno di Pentecoste, una festa importante per la Nazione Francese a Roma, che celebrava quel giorno S. Luigi proprio nella chiesa nazionale zeppa di alti prelati, nobili e diplomatici parigini. Quell'anno, poi, era attesa la partecipazione del re Enrico IV, neo convertito al cattolicesimo, intenzionato a favorire l'ingresso nel Collegio Cardinalizio della Città Eterna, un alto numero di prelati francesi ai danni della Nazione Spagnola e per questo la festa e la stessa presentazione della tela erano momenti clou della sua strategia politica. Ma cardinali, esperti, artisti che la sera prima di Pentecoste andarono ad assistere allo svelamento della tela rimasero senza parole: " Avendo egli terminato il quadro di mezzo di San Matteo  e postolo sull'altare, fu tolto via da i preti col dire che quella figura non aveva decoro né aspetto di Santo, stando a sedere con le gambe incavalcate e co' piedi rozzamente esposti al popolo" ( Gian Pietro Bellori ), già prima del resto, il biografo e rivale del Carvaggio Giovanni Baglione, aveva, con un certo compiacimento, scritto che il quadro" Non era a verreuno piacciuto" ( Baglione ). Cosa dunque aveva combinato il Caravaggio che nella sua carriera si era spesso scontrato con i suoi committenti che l'avevano fatto oggetto di altri rifiuti come nel caso della Morte della Madonna  ?  Gli spettatori della tela si trovarono di fronte ad un dipinto giocoso, sereno, segnato anche da una certa vena di comicità ed ironia che appariva come su di un palcoscenico di una rappresentazione sacra. Quello che colpiva l'occhio emozionato dello spettatore era la presenza di un S. Matteo tozzo, contadinesco, analfabeta, che si sforzava, o meglio si meravigliava, strabuzzando gli occhi grandi dallo sguardo ingenuamente stupito, di vedere come fosse possibile che dalla sua mano rozza e dalla sua poca intelligenza potessero uscire, sia pure se guidati dalla mano miracolosa dell'Angelo, caratteri scritti in ebraico. C'era poi quel rozzo piede sporco che veniva verso lo spettatore, quasi uscendo dal quadro, realizzato con un virtuosismo unico e con vena comica ( Caravaggio aveva voluto imitare l'arte scultorea quasi in una presa per i fondelli del Coba, mostrando come la pittura,  se si vuole, può anche essere a tutto tondo, come la scultura che è in grado di rimpiazzare e essere anche migliore di essa ). La presenza dell'Angelo è conturbante: un monello scapestrato, un "ragazzo di vita" con la bocca socchiusa che si struscia contro il vecchio contadino ignorante, come nel cosiddetto"Fruttarolo"  della Galleria Borghese, del 93-94, il Bacchino malato, del 95,agli Uffizi, o meglio ancora il volto del monello con le labbra aperte e rosse del Concerto di giovani al Metropolitan Museum di New York.

Caravaggio, Concerto di giovani, 1595, Metropolitan Museum of Art, New York 

Un giovane efebico, tipico del Caravaggio giovanile, quando frequentava Casa Del Monte e il Cavalier D'Arpino e iniziava a dipingere con i modelli "dal naturale", ripresi in strada, nei vicoli malfamati intorno a Piazza Navona e nella zona del Campo Marzio. Verrebbe alla mente un contesto di pedofilia, si direbbe oggi ( ma è più storicamente e psicologicamente adeguato il termine di pederastia )  un rapporto particolare fra il vecchio e il giovane impubere  . La critica moderna recente, a cominciare dal Calvesi, 1990, ha voluto di molto ridimensionare l'immagine romantica del pittore maledetto, frequentatore di omosessuali e prostitute, assassino e violento, puntando soprattutto sul fatto che il pittore, sia pure genio inquieto e pittore del"naturale", era strettamente legato ai codici iconologici del tempo e quindi lontano da una stretta relazione col solo reale. Ciò è vero. Caravaggio non si discosta di molto dalle prescrizioni che i trattati di iconologia prescrivevano e molte figurazioni vanno lette in chiave simbolica  ( ad esempio le foglie di vite malata e ingiallite nel canestro del "Fruttarolo ", non indicano solo un dato realistico, bensì anche un segno di malinconia e una presenza del male capace di rodere la bellezza ) ; ho sempre pensato però che sia esagerato vedere in tutte le figurazioni referenti simbolici, anche se questi, comunque, esistono nell'ambito dell'iconologia contemporanea e nella pittura del tempo. La lettura contestuale dovrebbe però non ignorare il carattere storico e sociologico del"fondo"dell'immagine: ad esempio nel Ragazzo morso da un ramarro,

Michelangelo da Caravaggio - Ragazzo morso da un ramarro
Caravaggio, Ragazzo morso da un ramarro, 1595, Collezioni Longhi, Firenze


del 95, oggi alla Collezione Longhi a Firenze, il gesto di ripulsa della mano che si ritrae dai fiori dopo il morso del ramarro, è certo simbolica ( più che una"ferita d'amore", un ammonimento all'effimero del piacere o del bello), però il giovane con la bocca socchiusa, morbida e rossa e con un bocciolo di rosa fra i capelli nerissimi, gli occhi languidi e la spalla scoperta, rappresenta un indice sociale e simbolico anche di altro, della realtà dei giovani di piacere efebici che frequentavano la casa del cardinal Del Monte ( Robb, 81 ) e allora le ciliege, le prugne, la rosa in bocciolo e l'apparizione del ramarro ( nella poesia erotica greco-romana, un simbolo del membro maschile ( Robb, idem ) che sconvolge il giovane, portano ad un contesto erotico e semmai ad una rappresentazione erotica della lussuria.  Dunque sono questi ragazzi "di piacere" che circondavano un omosessuale come il cardinal Del monte, che Caravaggio usava come modelli "naturali" e così lo è anche l'angelo che appare nel dipinto per S. Luigi, che ha un volto molto femminile e poco c'entra la sessualità ambigua degli esseri angelici. Qui si tratta di un giovinastro con i piedi nudi a terra, con ali bianchissime e posticce, con le braccia molto nude, e la gamba che esce dalla veste. Insomma non proprio l'ideale per i sostenitori seguaci del Paleotti del decorum. Aveva scritto il Paleotti che il demonio non potendo eliminare le immagini le riempie di abusi  ( in Safarik, 14 ) ; quindi Caravaggio colpevole di aver commesso degli imperdonabili abusi, ad esempio la gamba nuda e le vesti trasparenti dell'angelo, ciò non è propriamente in linea con il decorum ( Bologna, 92, 67,68  ). Ed è così anche per altre mancanze ed assenze: ad esempio poteva essere imperdonabile il fatto che il Santo non avesse alcun segno del divino ( nella seconda versione sulla testa di un Matteo più profeta ispirato con barba da filosofo o da saggio, si vede, a segnare il nero inchiostro del fondo ,un filo tondo luminoso di aureola, chiaro indice di correzione, di emendamento di un errore ).

L'attuale versione di S.Matteo e l'Angelo
Caravaggio, S. Matteo e l'Angelo, 1602, Cappella Contarelli, S. Luigi de'Francesi, Roma
Anche la seggiola ove siede il Santo nella Prima Versione poteva non essere in linea con le regole. Una savonarola sa troppo di provocazione, richiama il frate Girolamo bruciato sul rogo,puzza di eresia. Nella Seconda Versione  Caravaggio corregge anche qui: non più la savonarola ma un bancone di solido legno e una panca sulla quale Matteo poggia il ginocchio e scopre il piede nudo e su cui cala il manto rosso simbolo del martirio. E nella Seconda Versione l'Angelo non poteva essere più lo sfacciato giovane mezzo spogliato con la bocca socchiusa che insinua una gamba nuda fra quella del Santo, ma un vero Angelo celeste, che si avvitava nell'aria densa del cielo nero scendendo dall'alto come gli angeli delle Sacre Rappresentazioni calati con i fili di canapa dal sopracielo della scena, con una nudità rosata mistica, un drappo bianco ed immacolato zeppo di piegature e con le mani che indicano il segno del contare ( Matteo era un pubblicano collettore di imposte che sapeva far di conto e sapeva scrivere ), ma con probabile indicazione simbolica ( il 7 indicato dalle dita dovrebbe rimandare a complessi calcoli simbolici sulla Genealogia di Cristo ). Del vecchio rimbambito sedotto dall'Angelo nulla più. Le assenze sono state cancellate a favore di significative presenze  senza abusi. Il dipinto, troppo lontano dal volere del Contarelli che aveva scritto una prima descrizione di come doveva essere fatto, prevedendo una dialettica fra il Santo che mostrava di scrivere o voler scrivere e l'Angelo che mostrava di voler ragionare ( Bologna e Safarik ), seguiva una traccia diversa e contradditoria, più da idillio veneziano che da severa rappresentazione sacra romana, esaltando una composizione molto naturalistica e plastica basata sul groviglio, sull'intreccio degli arti, non su di una equilibrata distanza e, come afferma il Safarik, il nodo, l'intreccio, è più il segno del diavolo, mentre il divino si esplica attraverso il circolo, l'ellittico ( e si guardi la posizione e la disposizione dei due angeli ) e il Bologna a mio avviso giustamente contesta Calvesi che vede nei piedi nudi a terra un'espressione della santità e una citazione michelangiolesca che, da sé, doveva essere un lasciapassare assoluto. Qui Caravaggio vuole esprimere un contatto fra la carne nuda celeste e la nuda terra, porre naturalisticamente sullo stesso piano il terreno col divino, o meglio calare il divino nella realtà umana. Un angelo con i piedi nudi e la veste bianca del resto era stato già dipinto e in un contesto da idillio veneto,  giorgionesco, è il caso stupendo del Riposo nella Fuga in Egitto , del 1599, con l'Angelo di schiena in primo piano.


image
Caravaggio, Riposo nella Fuga in Egitto, 1599, Roma, Galleria Doria Pamphili
Qui il ragazzetto è anche meno vestito, nudo probabilmente davanti al vecchio S. Giuseppe, con un poderoso ciuffo rossastro e una carnagione molto chiara ( non conosciamo i colori della prima versione del S. Matteo, ma forse l'angelo doveva avere questa carnagione ), meno ragazzaccio e più distaccato, più mistico, con ali posticce da aquila, più attore che monello di strada e al limite e paradossalmente, più parente dell'angelo della II versione che però ha perduto il contatto con la terra ed è stato spedito in cielo. Il rapporto con questo dipinto della Galleria Pamphili non è stato molto approfondito, ma vale la pena di fare incursioni approfondite ora nell'una, ora nell'altra immagine, forse sarà anche più chiaro comprendere come la scelta"naturalistica" ed idilliaca di ascendenza veneta di Caravaggio non poteva essere molto compresa in un ambiente di rigore controriformistico, nelle visioni dottrinarie e severe romane, era quasi un insulto. Il marchese Giustiniani, che nella sua collezione aveva già altre opere del pittore come Il suonatore di liuto del 1596 in Collezione Privata a New York, compresi imbarazzi, fastidi e reazioni nervose, si propose di commissionare la seconda versione emendata e di pagarla di persona trattenendo però, furbescamente, la prima, che venne inserita nella sua Collezione Privata. Certo il Giustiniani sapeva che quell'opera indecorosa e quasi blasfema poteva star bene, considerata l'alta qualità, solo in un luogo privato laico e non in uno sacro e pubblico, però si trattava sicuramente di una scelta molto interessata. L'opera rimase nella Collezione sino al 1815 quando venne venduta al Friedrich Museum di Berlino dove restò sino al 1945 quando il museo venne bombardato e andò a fuoco. L'opera, si crede, fu distrutta o dispersa ( insieme ad altre del pittore come La Cortigiana Fillide e Il Cristo nell'Orto ) o fu salvata ed occultata prima del bombardamento. Con l'invasione russa di Berlino l'opera potrebbe essere stata trafugata e portata in qualche museo sovietico e nascosta nei magazzini o nel caveau di qualche banca. Siamo qui nel campo delle pure congetture, però se si pensa che alcune opere credute distrutte sono poi state ritrovate, tutto è possibile. Ora ne abbiamo solo alcune fotografie in bianco e nero, mentre esistono delle possibili copie come il San Matteo di Nicola Regner del 1625 e una copia doveva trovarsi anche nella Collezione del Cardinal Del Monte ( Safarik ). Il dipinto del S. Matteo e l'Angelo era un'autentica e solitaria interpretazione caravaggesca, sentita attraverso la vibrante atmosfera savoldesca e giorgionesca, scevro di interpretazioni dottrinarie complesse, che esaltava una scena fra un villan e un monellaccio scostumato travestito da angelo: una scena di respiro comico e sereno che non poteva entrare e non sarebbe mai entrata fra il Matteo da osteria sorpreso dall'apparizione di Cristo e il Matteo moribondo tormentato dal carnefice, fra il messaggio del divino e il dramma della persecuzione della fede.

Bibliografia:

Maria Isabella Safarik, Caravaggio e la prima versione del San Matteo e l'Angelo per la Cappella Contarelli, 2005 in www.eduardsafarik.com/mariaisabella/pdf/caravaggio.pdf
B.Berenson, Caravaggio, Milano,1994
F.Bologna, L'incredulità del Caravaggio,Torino,Einaudi,1992
M.Calvesi, La realtà del Caravaggio,Torino,Einaudi,1990
L.Spezzaferro, Caravaggio rifiutato?Il problema della priva versione del S. Matteo e l'Angelo in Storia dell'Arte, 10, 1984, pp.49-64.
Caravaggio, Art Book, Leonardo Arte, 1998
Peter Robb, M. L'enigma Caravaggio, Milano, Mondatori,2001.
     
















































Nessun commento:

Posta un commento